giovedì 22 agosto 2019

Chiediti dove sta andando un gatto



Ma che giro fanno i giri dei gatti, indaffarati e trasognati, nel trastullo di traiettorie, trascurate e tutt’altro che trafelate?

Loro vagano senza meta, in un’apparenza di casualità assoluta, ma in realtà perfettamente calcolando l'imperscrutabilità della poesia felina, in un passaggio rasente a un muretto, nella sosta al cassonetto, lungo la coda tenuta a terra, dentro una sorta di guardinga gioia in guerra.

I gatti son molto seri passeggiando, ma in ogni loro atto pare che il mondo stiano beffeggiando, con quella pelliccia indossata ad ogni costo, quasi per irridere l'ustoria boria d’agosto.

I giri dei gatti sono senza fatti, si soffermano sopra un niente, fanno di un filo d’erba la ragione onnipotente.

Non gliene frega di diavolerie satellitari, schivan come cacche certi rettilinei dai gusti militari, fan più che a meno del GiPiESSE, bastando loro un ben più sgangherato MiCiESSE.

Se non ti sei mai domandato dove vanno i gatti, sappi che finora hai vagolato fra i matti.

È nel loro ondivago andare e stare, che si nasconde il mistero del mare.

Fra i gatti e la risacca, non ci capiremo mai un’acca.

Entrambi raccontano di felicità nascoste nella fiacca: e chi proprio non ci crede, ignaro se ne sta del mondo, lieto pargolo di baldracca, del suo sé gran grullo, e giocondo.


domenica 18 agosto 2019

L'irriducibile mondo omo-umano di Maurice



Se per “arte” s’intende la libertà piena di poter esprimere l'essenza genuina del proprio esistere (come credo sia giusto intenderla), allora l’arte e il senso della vita coincidono.

In questa accezione, arte e vita sono una cosa unica.

Questo ho imparato, di ciò ho avuto ottima conferma, dalla lettura dello splendido romanzo di Edward Morgan Forster, “Maurice” (1914 - pubblicazione postuma 1971).

“Maurice” racconta “all’apparenza” vicende di amore omosessuale fra uomini.

Questo, per una sorta di sfumata sensazione pregiudiziale, ha fatto sì che il libro, acquistato ben otto anni fa (avevo conservato lo scontrino fra le pagine), sia rimasto a boccheggiare sul secondo ripiano del comodino tanto a lungo, prima che mi decidessi a leggerlo.

Per prevenire eventuali, doverosi strali di meritate accuse di omofobia, che mi potrebbero venir lanciati addosso, ci tengo a precisare.

Sono il primo a sostenere che l’amore espresso in ogni sua forma possibile, purché sempre nei limiti della libertà e della sensibilità altrui, debba essere tutelato, rispettato e valorizzato.

Ero incuriosito da “Maurice”, avendo letto gli altri tre capolavori assoluti di Forster: “Camera con vista”, “Casa Howard” e “Passaggio in India”.

Le mie remore di lettura erano piuttosto dovute a un senso di estraneità: il mondo dell’omosessualità, come dimensione che non mi riguarda, mi appare quasi del tutto privo di interesse, anche solo se considerato a livello di argomento narrativo.

Non c’entrava dunque assolutamente nessuna questione di giudizio preventivo, ma si trattava solo di puro disinteresse: come se a un tale a cui non può fregare nulla dell’ippica, si pretendesse di raccontare tutto quanto c’è da sapere sulle corse dei cavalli.

Come tutti i libri davvero grandi, però, “Maurice” mi ha smentito in pieno, colmandomi della meraviglia pura dell’inatteso.

Perché sì, il romanzo parla molto di omosessualità, ma ci racconta in primo luogo una immensa, essenziale verità che riguarda la vita di ciascuno.

Ci racconta che l’unico, il più genuino, fondamentale “tratto comune” a tutti gli esseri umani, è l’assoluta diversità di ciascuna vita rispetto a tutte le altre vite.

Ciò che abbiamo in comune come uomini, risiede proprio nel “non poter venire accomunati”.

Ogni individuo, in quanto tale, nella profondità più significativa del proprio “sé”, è una singolarità unica e probabilmente irripetibile del vivere (fatte salve ovviamente certe caratteristiche molto generali che ci possono accomunare).

Non ci dobbiamo rispetto e stima reciproca in quanto omosessuali, eterosessuali, o chissà cos’altro: ci dobbiamo comprensione e “compassione” umane, in quanto tutti diversi l’uno dall’altro.

La diversità è quella terribile, fascinosa, sconvolgente malattia che ci travolge nell’epoca della nostra adolescenza, e dalla quale non guariremo mai più lungo il corso di tutta la vita.

In questo risiede la straordinaria bellezza che trapela da un romanzo come “Maurice”: non tratta di vagheggiate rivendicazioni di questa o quella “minoranza umana”.

Tratta invece esattamente dell’umano nella sua grandiosa irriducibilità a qualsivoglia etichetta, catalogazione, incasellamento.

Tratta dell’orgoglio di essere, in fondo, tutti diversi.

Per questo in apertura parlavo della coincidenza fra arte e vita: perché ogni vita vissuta nella sua originalità più piena, è il grande, inimitabile capolavoro che ciascuno deve a se stesso.

E soprattutto di ciò “Maurice” racconta.


lunedì 29 luglio 2019

Interstizi


È profondamente sbagliato e ingiusto pensare alla scienza come a qualcosa di freddo e arido.

Altra questione è parlare della complessità del mondo della scienza. Lì siamo d’accordo: i temi non sono sempre accessibili a tutti.

Per fare allora una sintesi: mi annovero fra coloro che spesso faticano a capire la scienza, ma non di rado riescono a cogliervi sfumature, se non proprio poetiche, perlomeno portatrici di grande stupore e “ulteriorità” immaginativa.

Un bel libro che condensa in sé molti di questi aspetti si intitola “La fisica dei supereroi”, lo ha scritto un professore americano di origini greche, James Kakalios (Einaudi, 2014).

Non è di facilissima lettura, va detto, ma di voli della suggestione ne fa fare parecchi.

Con un interessante excursus, passa in rassegna tappe fondamentali della storia del fumetto americano, ma soprattutto cerca di spiegare i fenomeni fisici attraverso i super-poteri di tanti personaggi cari al pubblico di mezzo mondo: Superman, Spiderman, Flash, ecc.

Su questo libro, ho riletto una cosa a me già nota, ma che ogni volta mi induce una meraviglia grande.

Sappiamo che la materia è composta di atomi. Un pezzo di legno, di ferro, il nostro corpo, una fetta di torta: nella profondità minuscola di ogni cosa, tutto è formato da questi mattoncini infinitesimali chiamati atomi.

Fin qui niente di strano: siamo abituati a pensare una cosa grande come la somma di tante componenti minori (una casa è fatta di mattoni, un’auto dei suoi pezzi, e così via).

Se però si va a vedere (si fa per dire) la “geografia” profonda dell’atomo…oooohhhh…gran sorpresa sorprendente!

L’atomo è formato a sua volta di ancor più minime parti: i protoni e i neutroni, appiccicati insieme in un cuore centrale detto nucleo, e gli elettroni, che ruotano attorno al nucleo come piccoli satelliti.

Ora, sto semplificando molto, ma già un primo motivo di bellezza emerge: la similitudine fra infinitamente grande e infinitamente piccolo.

L’universo è impostato sopra il “paradigma” generalissimo del “ruotare attorno”: dall’atomo ai grandi sistemi galattici, passando per gli innamorati…cose, esseri ed entità sono attratti fra loro in moti circolari diffusi per ogni dove della realtà concepibile.

Il bello più bello viene poi considerando le proporzioni fra gli elementi atomici.

Il nucleo misura un trilionesimo di centimetro.

Solo a dirlo, o a pensarlo, ci si cappotta di “strabilianza” (parola che invento per l’occasione, non esistendone sul vocabolario di sufficientemente degne).

Vuol dire: prendere un centimetro e dividerlo un miliardo di miliardi di volte (minchia! E scusate il termine, ma si tratta di un numero formato da un 1, seguito da diciotto zeri).

Il raggio dell’atomo interamente inteso è grande invece diecimila volte la misura del nucleo: questo rappresenta la potenziale “sfera di movimento” entro cui ci si aspetta che la rotazione degli elettroni possa spaziare.

Ora, immaginando (per avere un’idea dei rapporti in gioco) che la misura del nucleo fosse di un centimetro, in proporzione, il raggio di orbita degli elettroni sarebbe di novanta metri.

E doppia minchia, mi viene qui da dire.

Perché se le proporzioni in gioco sono queste, ne deriva che l’atomo in pratica è fatto quasi interamente di spazio vuoto.

Qui un poeta ne avrebbe da ragionarci sopra forse molto più dello scienziato.

Quello che pensiamo sia compatto, dal punto di vista delle nostre dimensioni del vivere usuale, è in realtà un conglomerato di vuoti. Certo, l’energia che tiene legati questi vuoti fra loro, e ciascun atomo di per sé, è immensa (energia nucleare e atomica, per l’appunto).

Ma questo non fa altro che aggiungere magia a incanto: ciò che al livello macroscopico dei nostri sensi appare come materia “in quiete”, è in realtà un brulichio di energia terribilmente agitata, è un portento di mini particelle in moto frenetico, instancabile, perennemente mutevole, agitatissimo, in inimmaginabile rimescolio.

Mi prendo una licenza poetico-scientifica, a questo punto, e azzardo una conclusione sgangherata, ma apprezzabile in pieno da qualsiasi sognatore degno di questo nome.

Per me, l’energia di cui la realtà brulica fin nelle sue più intime fibre, la si può ribattezzare solo con un nome noto a tutti: amore.

C’è questo, in fondo a tutto, dentro l’atomo e nelle più vaste distanze cosmiche: l’amore.

Non lo posso dimostrare scientificamente, ma sfido chiunque a venirmi a smentire, armato delle sole armi della poesia: non ci potrà mai riuscire.

venerdì 5 luglio 2019

Brugnoni



A volte scrivo complicato. Non lo faccio per atteggiarmi a chissà chi, o per snobismo, o cose peggiori.

Scrivo complicato perché sono affascinato dalla complessità. E qui c’è già qualcosa da precisare.

Tra complessità e complicazione c’è infatti una differenza fondamentale.

La complessità è una caratteristica della realtà: il mondo, la vita, sono complessi.

La complicazione è invece nella mente dell’uomo, nasce da un imperfetto confronto con la complessità.

Se scrivo complicato è dunque solo per i limiti che non riesco a superare nella strada verso una qualche comprensione della complessità.

Fa sempre parte di questo discorso, la distinzione fra semplicità e semplificazione.

La semplicità è imparentata con la complessità

La semplificazione è invece legata alla complicazione.

Riuscire a raggiungere un certo grado di semplicità, vuol dire aver guardato in faccia onestamente la complessità.

Non significa naturalmente avere abbracciato completamente ciò che è complesso. Ma almeno averlo considerato con serietà e impegno, questo sì.

Pervenire a una semplificazione vuol dire invece essersi trovati davanti la complessità e averla vista solo come complicazione.

La semplicità sì conquista, la semplificazione è un atto di resa.

L’idea allora sarebbe questa: non temere di osservare la complessità, fiduciosi che semplicità parziali (pur se raggiunte con dedizione e sforzo) ci aiuteranno nel cammino.

Questo è il periodo in cui l'antico “brugnone” in fondo al campo dietro casa matura regalando i suoi abbondantissimi anche se quasi inutili “brugnoncini” (terminologia derivante da “brugna”, dialettizzazione di prugna).

Sono acerbi a manetta e per ricavarne una sorta di marmellata-beverone accettabile al palato, vanno integrati con una buona metà in peso di zucchero.

Mia zia, che ha avuto una lunga vita, diceva di ricordare il vecchio “brugnone” che già elargiva “brugnoncini” fin dai tempi in cui lei era ragazza.

Cosa c'entra un umile “brugnone” in un discorso su complessità, complicazione, semplicità, semplificazione?

Se ve lo state domandando, siete più propensi in generale a vedere complicazione nelle cose e ad aspirare alla semplificazione.

Se invece vi è sembrato tutto lineare, siete sulla buona strada per riuscire ad amare la complessità, riponendo molta speranza nell'esistenza di qualche semplicità salvifica tutta da scoprire.

giovedì 4 luglio 2019

Quando la vita si riversa nell'arte e l'arte si rivela nella vita


Ho avuto il privilegio di leggere uno dei migliori libri dedicati al mondo dell’arte, e dunque al mondo stesso in senso generale.

Solamente per una auto-imposta forma di miope (seppur umanissima) “difesa esistenziale”, continuiamo infatti a non voler vedere come mondo e arte coincidano.

Condividono infatti la medesima essenza, intrisa di paradossalità e prerogative comuni, verso una tensione continua ad abbracciare gli opposti
In questa prospettiva, ciascuna vita è un dipinto, una scultura, un film, un romanzo, ma spaventa, turba, disorienta ammetterlo, e ci si rifugia nel rassicurante incasellamento in “vite-documentario” (o “resoconto-aziendale”, oppure “referto-medico”).

Il libro in questione è un saggio critico molto acuto riguardo alle più fondanti questioni estetiche, e insieme una pregevole e godibile autobiografia.

Si intitola “La mia vita”, lo scrisse nel 1945 Carlo Carrà (1881-1966), esponente di spicco del movimento Futurista prima, e protagonista primario dell’arte del Novecento nel corso della sua lunga esperienza creativa (“Abscondita Edizioni” ne ha curato una bella riedizione nel 2016).

Al termine di una lettura veramente buona, deve rimanere dentro quel vago e prezioso senso di essersi avventurati in un nucleo puro di complessità avvincente, vivifica e molto nutriente per l'animo.

La biografia di Carrà sfocia perfettamente in questo esito.

L'impianto generale del testo è articolato su una intelaiatura aneddotica.

Si passano gradevolmente in rassegna vari episodi nelle tappe principali della vicenda umana del pittore.

Si incontrano tanti protagonisti della vita artistica e culturale del primo Novecento (Marinetti, Boccioni, Picasso, Apollinaire, Modigliani, Dino Campana, Medardo Rosso…) e a ciascuno di loro Carrà riserva note affettuose, cenni a particolari curiosi, preziose considerazioni umane personali.

Ma il cuore vero, il tesoro essenziale di questa messe di ricordi, si dipana intorno all'articolato discorso tenuto dall’autore lungo tutto il testo, riguardo al significato dell’arte.

Per capire meglio che cosa l’arte sia, la lettura del libro di Carrà non sarà sufficiente, ma dopo averlo conosciuto mi sento di dire che è sicuramente necessaria.

Pensiamo solo a una cosa: forse il 90% (sparo una cifra simbolica) di cittadini del paese più “densamente artistico” del pianeta (l'Italia) sono convinti, al meglio della propria considerazione in merito, che fare arte significhi praticare (e non si saprebbe a quale scopo) una riproduzione più fedele possibile della realtà.

Allora ci rendiamo conto dell’importanza di testi come quello di Carrà. Attraverso una raffinata riflessione personale maturata lungo un’esistenza intera, il pittore-scrittore ci accompagna con mano sicura nelle profondità di senso dell'espressività artistica.

Comprendiamo cosi insieme a lui, come l’arte non sia propriamente un qualcosa che si crea, ma soprattutto uno stato conoscitivo a cui si tende e al quale si tenta di addivenire.

Entrare nel senso artistico è cercare di assestare una presa chiara, sicura e onesta sopra al “vero”.

Altrettanto depistante è infatti la versione di un'altra non meglio precisabile percentuale di osservatori delle vicende artistiche, i quali pretenderebbero di vedere nell’arte un percorso di radicale astrazione dalla realtà.

Non c'è meno realtà in un astrattissima opera di “dripping painting” (“pittura per gocciolamento”) di Jackson Pollock, di quanta ce ne sia in un concretissimo ritratto di Antonello da Messina.

Il punto è, come Carrà ci spiega, che entrambi (Pollock e Antonello) prendono il “vero” (le cose nel proprio manifestarsi) come base di partenza, “trasfigurandolo”, nel tentativo di andare a cogliere il senso essenziale del “reale”, celato sotto il velo del suo “apparire”.

Carrà ci fa capire come fra la caducità “trascorrente”, mutevole delle cose, e la intravista, intuita, fondatezza di un “essere” immutabile ed eterno, si frapponga il termometro esistenziale della sensibilità umana.

Con Carrà ho capito dunque ancor meglio come la pittura tenda a cogliere “…L'immagine trascendente delle cose…” (pag. 126).

La pittura non è riproduzione pedissequa e nemmeno fuga dal reale: “…La pittura crea una cosa nuova, una nuova entità…” (pag. 151), cerca di cogliere “in essenza” il significato di raccordo che intercorre tra la dispersività frequentativa del “esistere”, e la fissità sintetizzante del “essere”. E non si potrebbe riassumere meglio il concetto, che con le parole di Leonardo, citate a pag. 223: “…La pittura è cosa mentale…”.

Grazie al testo di Carrà, mi sono addentrato meglio in quel filo di senso che tiene unite pittura, musica, matematica e geometria: tutte concorrono, con gli strumenti propri, alla ricerca di “…corrispondenze arcane…” (pag. 220).

Carrà mi ha spiegato poi molto sottilmente la strettissima parentela fra pittura e architettura. Fare architettura infatti altro non è che immettere “dosi di umano” nelle cose del mondo, medesima finalità del dipingere.

Leggendo la vita di Carrà, ho infine capito più precisamente perché taluni pittori a me molto cari, tra quelli che meglio hanno saputo trasmettermi il profondissimo senso conturbante del mistero nascosto nelle cose (Jan Vermeer, Giorgio Morandi, Edward Hopper, René Magritte, Giorgio de Chirico, Paul Klee, Mark Rothko), dipingevano innanzitutto la luce, nella quale è paradossalmente custodito l’invisibile.

E se tutto ciò non bastasse, la gioia di aver conosciuto un simile prezioso testo si sarebbe potuta condensare tutta in talune perle incontrate in corso di lettura, come la seguente citazione da una lettera indirizzata a Carlo Carrà dall'amico Dino Campana, fra le righe più belle mai vergate sulla carta da mente e mano umana in combutta fra di loro: “…Credi che è così dolce sentirsi una goccia d'acqua, una sola goccia ma che ha riflesso un momento i raggi del sole ed è tornata senza nome!...” (pag. 153).

lunedì 1 luglio 2019

The catcher of the flies


Ogni giorno compiamo piccole-grandi prodezze, del fisico e dell’animo.

Ma nessuno se ne accorge, nessuno le valorizza, oppure ci fa soltanto un piccolo applauso. Nessuno, tranne noi stessi, che ne siamo i soli coscienti spettatori e attori insieme.

E loro, le mini prodezze, se ne svaniscono gloriose nella pura inutilità, sfumando lontane lungo la smisurata prateria delle prodezze non riconosciute.
Stavo sparecchiando la tavola.

Una moschina molesta era posata sulla tovaglia.

Senza nemmeno pensare a cosa stavo facendo, mi lancio in un passo alla Rudolf Nureyev, e nel mentre che le sono quasi sopra, allungo con grande eleganza la mano sinistra, aprendola nel frattempo, con la delicatezza di Michael Jordan quando andava a posare a canestro la palla dopo aver veleggiato nell'aria una vita e mezzo intera, concentrata in tre secondi di volo sul parquet.

La mente sempre spenta,  in un puro gesto e basta, sento un lieve vibrare di alette dentro la mano che si è serrata passando rasente al pelo della trama di stoffa della tovaglia.

Ma poteva anche trattarsi di un frullo illusorio.

Quando tenti la cattura di una mosca in questo modo, non sai mai se ci sei riuscito davvero, fino al momento in cui riapri le dita, e verifichi il suo rinnovato volo liberatorio.

Così ho fatto. Mi sono avvicinato alla finestra aperta, ho spalancato il pugno, e la mosca c’era davvero, viva e pronta per balzare di nuovo libera nell'aria di fuori.

Nessuno ha saputo nulla di quel mio piccolo gesto atletico. E anche se ora ho tentato di diminuirne un pizzico l’anonimato venendolo a raccontare qui, nemmeno voi ne sapete davvero qualcosa fino in fondo.

Perché ogni cosa che facciamo, proviamo, sentiamo, rimane una più o meno grande “privatezza” personale, racchiusa nella nostra esperienza, che sola ne conosce gli effettivi termini e confini di bellezza, completezza e significanza piena.

Ciascuno è un miracolo perfetto e disperato di incomunicabilità. E trascorriamo una vita intera, nel volitivo e sempre rinnovato sforzo di farlo sapere agli altri…

martedì 25 giugno 2019

Sentirsi il nulla di un tutto...


Per ogni minimale goccia di questa linfa di tempo che mi scorre dentro, stasera, un universo esplode lontano dentro diecimila altri universi, ed è ogni cosa un moltiplicarsi di infiniti assorbiti dentro ad altri infiniti, germoglianti l’uno nell'altro nella globale pastura vivificante dell’amore totale.

Niente ha senso e, ciascun dove, e ogni qual quando, risplendono limpidi, laddove la contraddizione sconfinata del tutto non è mai stata così chiara, perfetta, logicamente ineccepibile.

Abbracciamo la vastità del paradosso per aggrapparci al sentirci vivi, unico dato che conta ormai.

Entrando nel mondo, abbiamo pianto, originario marchio di fabbrica di una bramosia d’esistenza che continuamente ci respinge.

Anche.

Dolore e gioia sono così dannatamente appiccicati vicini, un velo talmente sottile, a separare la disperante euforia, dall’inabissarci a pupilla asciutta nelle densità della meraviglia.

Tienimi immerso in te, mia ancora dell’adesso…in questo momento, di questo tempo, sperduto nell’oceano dell’inafferrabile, sei tu sola capace di accendere un prezioso lumino sui marosi d’ogni “incomprendibile” cosa.