giovedì 19 giugno 2008

Del parlar di terzi

Sembra che non ne possiamo fare a meno. È una necessità dell’umano, un’impellenza che passa quasi inosservata, tanto è pervasivo il velo della sua naturalità. In una cerchia di amici, conoscenti, colleghi di lavoro, niente di più normale che venga spontaneo parlare con le sfumature di giudizio più disparate della persona, o di persone, assenti sul momento. A volte rifletto su questo fenomeno e mi domando che significato gli si possa assegnare.

Escludiamo le motivazioni estreme, un po’ nello spirito di un “carosello” di diversi anni fa, che reclamizzando la grappa Piave, vantava una lavorazione rigorosamente mirata all’esclusione della “testa” e della “coda” del prezioso nettare distillato, per salvarne solo il “cuore” (per inciso, a tale proposito è d’obbligo un ricordo di Luigi Vannucchi, intenso attore teatrale che appunto prestava il suo volto a quel “carosello”, figura inserita a pieno titolo fra le icone anni ’70 della mia infanzia, la notizia della cui morte, poco tempo dopo, rappresentò ai miei occhi di bambino una delle prime e più intense manifestazioni di certe inspiegabili “malinconicità” del vivere).

Scartata dunque la “testa” del puro calcolo, imbastito nell’ottica del trarre vantaggio da “architetture relazionali” intessute ad arte tramite il vociferare dietro le spalle altrui, ed accantonata allo stesso modo la “coda” del pettegolezzo e della malevolenza, mi viene da chiedermi se esista davvero un “cuore” del significato da attribuire a questo atteggiamento così diffuso. E se non una spiegazione vera e propria del fenomeno, mi sembra di potere rinvenire alcune suggestioni in merito, sensazioni che almeno si avvicinino a tratteggiarlo meglio.

Un barlume di più pregevole definizione lo vedrei dunque bene attribuito ad un certo meccanismo consolatorio dalle ludiche sfumature. Perché si parla dell’altro quando non c’è? Perché ci piace metterlo sul “banco degli imputati”, anche se le intenzioni del chiacchiericcio sono le più inoffensive, disinteressate e bonarie del mondo? Perché è una pratica inutile, che ci fa sentire bene. Per qualche momento, racchiusi al calduccio di quella piccola comunella di complicità che poggia le sue fondamenta proprio sopra la sensazione del “lui/lei per ora è escluso”, ci sentiamo come protetti. Chissà, forse il senso di “connivenza” che si crea ha qualcosa a che vedere anche con il richiamo alla luce di certe “candide cattiverie” infantili. E in qualche modo è probabile che per la nostra “fisiologia dell’anima”, questa rimanga pur sempre una necessità da soddisfare, anche una volta attutiti e depistati dalla “civilizzazione normalizzata” intervenuta nel frattempo con l’età adulta.

Che si tratti di un modo di fare bislacco o quanto meno poco lineare (e quindi anche in questo senso imparentato con l’infantilità e col gioco) è poi confermato dall’esperienza comune. Non so a voi, ma a me ad esempio è capitato in un ambito, mettiamo, di 5 persone frequentate con relativa assiduità, di ritrovarmi con due di loro a parlare più o meno bene degli altri due non presenti, coi quali poi la cosa si è ripetuta puntando ovviamente l’obiettivo della discussione sugli sparlatori della prima ora, e poi ancora, a tu per tu con ciascuno, giù di nuovo a dire cose dell’uno o dell’altro del gruppetto, momentaneamente fuori portata uditiva. Da questo mi sembra di poter dedurre due constatazioni curiose: se le cose vanno normalmente così, il movente della cattiveria è maggiormente escluso proprio dalla instabilità e dalla volubilità delle fazioni in gioco. Inoltre, se le cose vanno normalmente così, poco ma sicuro che io stesso sia oggetto di chiacchiericcio quando due, tre, o quattro degli altri componenti del mio micro-aggregato sociale si ritroveranno senza di me. Il che dona a tutto il quadro una tinta di paradossalità ancor più svagata.

Infine, se proprio si vuole complicare ancor di più la cosa, mi sento di tirare in ballo persino l’«esse est percipe» berkeleyano. Ancora una volta allora non è per cattiveria o per malevoli secondi fini che ci godiamo una sana sparlata all’indirizzo dell’amico che ha appena girato l’angolo. È invece molto più semplicemente solo per il fatto che la sua assenza ne attenua l’essere. In questo modo, ci sentiamo autorizzati a trattare la sua “presenza messa in sospeso” come un fantasma da plasmare a nostro piacimento, con una forma bizzarra d’affetto che, tanto per riprendere le atmosfere anni ’70, un po’ ricorda una mitica scena del film «Lo chiamavano Trinità», nella quale il “terribile bandido” messicano Mescal, nel corso di una scorribanda ai danni di una comunità di inermi “fratelli” Mormoni agricoltori, impediva ai suoi sgangherati compagni di malefatte di schiaffeggiare i poveri contadini, proclamando con il tono responsabile del coscienzioso padre di famiglia: «Questi sono i miei fratelli, e i miei fratelli li picchio solo io!».

2 commenti:

Rosa ha detto...

Forse lo scrivere, e il leggere, hanno qualcosa in comune con il parlare degli altri...si elaborano le vicende altri perché in qualche modo sono universali, e ci riguardano. Mi è piaciuta moltissimo la chiusa del tuo post :-)

Gillipixel ha detto...

Commento che è degno prosieguo delle mie riflessioni, cara Rose of Luxemblog :-) Non ci avevo pensato: lo scrivere ed il leggere sono fortmente affini al parlare di terzi...geniale, molto brava a sottolinearlo...Wow, il mio primo commento ricevuto, che lusso...grazie