giovedì 28 agosto 2008

Facciamo finta che...

(Foto di Gillipixel)

“…I film mi piacevano come possono piacere a chiunque […] Per quanto le immagini potessero sembrarmi belle o ammalianti, non mi appagavano mai con la stessa potenza delle parole. Avevo l’impressione che troppo fosse dato, che non si lasciasse abbastanza all’immaginazione di chi guarda, e poi c’era il paradosso che più i film si approssimavano a simulare la realtà, e meno gli riusciva di rappresentare il mondo – che sta dentro di noi non meno che attorno a noi. Perciò istintivamente avevo sempre preferito i film in bianco e nero a quelli a colori, e il muto al sonoro. Il cinema è un linguaggio visivo, un modo per raccontare storie proiettando immagini su uno schermo bidimensionale. L’aggiunta del suono e del colore aveva sì creato l’illusione di una terza dimensione, ma defraudando le immagini della loro purezza. Il compito non era più tutto sulle loro spalle, e alla fin fine suono e colore, invece di trasformare il cinema nel perfetto medium ibrido – nel migliore dei mondi possibili -, aveva infiacchito quel linguaggio che avrebbe dovuto galvanizzare…“

“Il libro delle illusioni” - Paul Auster (2002)

Nessuna fra le convinzioni riguardanti l’arte che vengono comunemente accettate a livello di un pubblico non esperto, è forse più ingannevole dell’idea secondo la quale l’espressione artistica andrebbe intesa come rappresentazione, riproduzione della realtà. L’arte, in qualsiasi delle forme attraverso le quali essa possa venir concretizzata (musica, pittura, scultura, poesia, cinema, nel caso in questione, ecc.), rimane sempre e comunque un linguaggio, un insieme di segni investito di una volontà di significazione. E in particolare, si tratta di un linguaggio in larga parte non codificato, anzi, un linguaggio che ritrova continuamente il suo senso più genuino proprio nella capacità di sapersi originalmente rinnovare ogni qual volta si dimostri in grado di infrangere la codificazione fino al momento raggiunta.

L’arte dunque comporta sì un intervento di elaborazione del mondo che sta attorno a noi, ma operato a partire (e non potrebbe essere altrimenti) dal mondo che sta dentro di noi. Eppure la verosimiglianza continua ad essere pervicacemente ritenuta il metro di giudizio a cui lo spettatore comune ha il diritto di aggrapparsi nel momento in cui si trova a confrontarsi con un’opera d’arte. Ma se si considerano solamente alcuni fatti banali, ci si rende conto che non può esistere pretesa più improponibile. La battaglia intrapresa ai fini di ottenere una copia del reale, per forza di cose, risulta non solo persa in partenza, ma anche del tutto insensata.

Battaglia persa in partenza, perché l’obiettivo da raggiungere è infinito, e infinitamente vasto è il compito di riuscire a racchiuderlo attraverso un medium adeguato: un quadro impressionista rimane pur sempre un pezzo di tela cosparso di macchie di colori bidimensionali; e il più “realistico” dei film non è altro che una serie di lampi di luce riflessi da uno schermo; e così via esemplificando. Non di meno rimane vero che nell’opera d’arte il dato infinito iniziale viene paradossalmente colto tramite pochi elementi espressivi finiti, grazie all’immensa saggezza sintetica dell’artista.

Battaglia insensata perché, anche ponendo per assurdo l’ipotesi che un giorno si possa escogitare un medium fisico in grado di riprodurre alla perfezione la copia esatta di una porzione del reale, l’operazione avrebbe un valore molto simile al gesto di uno studente che, affrontando un problema di geometria, finisse per riconsegnare il foglio al professore senza aver tentato di cercare la soluzione, bensì dopo aver semplicemente ricopiato pari pari, sotto a quello originale, il testo dell’enunciato del quesito.

I mediatori utilizzati non possono essere che reali, concreti e circoscritti (le pennellate, i fotogrammi, le parole, il marmo, ecc.), ma il risultato non vuole essere una copia del vero, bensì una sua interpretazione: l’intento dell’artista è allargare la conoscenza sul mondo, esplicando, attraverso forme inedite che nessuno prima di lui era mia riuscito ad esprimere in quei termini, i nuovi aspetti della vita messi in risalto con la propria ricerca creativa. Un quadro cubista, con il suo tentativo di racchiudere in senso sintetico spazio-temporale la frazione di mondo presa in considerazione, è astrazione. Ma, seppur in misura e con propositi di significazione differenti, sono astrazione anche le statue di Fidia e di Policleto, nel loro intento di avvicinarsi alla suprema idealizzazione della figura umana.

La prossima volta dunque che vi ritroverete a passare in rassegna le opere di un museo, e magari davanti ad una statua greca del periodo classico vi capiterà di sentire un altro visitatore esprimere la propria meraviglia esclamando: - Che bella! Sembra vera! -, potrete sentirvi autorizzati a considerare senza scrupolo di coscienza alcuno che il povero sprovveduto alla fin fine non avrà fatto altro che sprecare i soldi del biglietto.

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