domenica 21 settembre 2008

Quel motivetto che fa dudu-dudù-dudu-dudù-dudùùù...

(Foto di Gillipixel)

Credo di essere stato solo pochi momenti della mia vita senza un motivetto che mi rimbombava nelle orecchie o una melodia sussurrata fra me e me. La nostra è l'epoca dell'inquinamento acustico e visivo. Siamo martellati da tutte le parti, non c'è bisogno che ve lo venga a ricordare io, soprattutto in un posto come internet. Personalmente, da un punto di vista musicale, la cosa non mi ha mai dato fastidio più di tanto, fatta eccezione per le situazioni estreme, fra le quali faccio rientrare anche quelle causate dalla pubblicità, che negli ultimi tempi sopporto sempre meno. La musica per me è necessaria ed importante come respirare: gli attimi delle mie giornate, coi rispettivi stati d'animo, sono sempre sottolineati canticcchiando o zuffolando note, spesso e volentieri pescate nel repertorio rock, ma anche classico, oppure pop di qualità.

A volte però succede che il motivetto di turno, non saprei bene come dire, ma me lo sento frusto in mente. E' un po' la sensazione che ti dà una cicca dopo che l'hai tenuta in bocca a lungo: mastichi, rumini, vai giù di nuovo di mandibola, ma non ci cavi più niente di buono. Il fenomeno, nella sua complessità (certo, ad un livello "un po' più elevato" rispetto alle mie rustiche metafore), è stato sapientemente illuminato da Giulio Carlo Argan nella sua fondamentale Storia dell'Arte. Parlando della poetica di Andy Warhol, Argan scrive:

“…Andy Warhol […] preleva l'immagine dal circuito dell'informazione di massa, come Lichtestein, ma la presenta logora, sfatta, consumata. […] Sono immagini divulgate dalla stampa quotidiana: la medesima immagine viene veduta molte volte, stampata in piccolo o in grande, in nero o a colori, sul giornale che si scorre la mattina bevendo il caffè, che legge il vicino nell'autobus, che è appeso all'edicola, ecc. Finiamo per riconoscerla senza osservarla. Come il ritornello di una canzone: a forza di sentirlo, lo impariamo a memoria e seguitiamo a ripeterlo mentalmente, anche senza volerlo, anche se "ci fa rabbia". La notizia è stata per un'ora un mito di massa: come tutti i miti, trapassa nell'inconscio senza essere passata per la coscienza...“

L'arte moderna” - Giulio Carlo Argan (1982)

Ecco, è questo che mi succede quando ho qualche "cicca frusta melodica" lì fissa a tartassarmi la mente: "mi fa rabbia". Nel tempo mi sono anche accorto che oltre a farmi rabbia, a volte mi scatta dentro pure una sorta di meccanismo inconscio di difesa, alquanto buffo a dire il vero. Canticchiando e ricanticchiando, quasi senza rendermene conto, sostituisco al testo della canzone parole improbabilissime. Tipo: una volta mi tormentava un pezzetto della canzoncina di "Jeeg Robot d'acciaio" (...oh, portate pazienza...): "...se dal passato arriverà, una nemica civiltà...". La mia ribellione mentale, inconscia ed involontaria, la tramutò così: "...se dal passato arriverà, una fottuta civiltà...". Lo stesso per un classicone di Percy Sledge, "When a man loves a woman": "....When a man loves a woman...baby, baby, baby...va a dà via al cül". Credo che non ci sia bisogno di traduzione, nemmeno per il lettore non avvezzo al dialetto nord italico.

L'altra sera, mi è risuccesso. Lavoricchiavo al pc, e come spesso faccio, tenevo accesa sotto la tele, tanto per non farmi mancare il mio sano bombardamento videosonoro quotidiano. Al contempo, non volevo essere troppo distratto, e ho girato sul programma più vacuo disponibile, un sorta di revival di canzoni del passato, su Rai Uno. Ad un certo punto, sbuca fuori un motivetto vecchissimo: "...aveva una casetta piccolina in Canadà...". Sarà stato un po' il fatto che ero concentrato e quindi più "infastidibile", fatto sta che fra me e me, anche dopo, seguitavo a canticchiare: "...aveva una casetta piccolina in Canadà...e tutti quei bastardi che passavano di là, dicevano che bella la casetta in Canadà...".

Boh...la cosa più preoccupante però, è stata che anche una volta nel letto, continuavo a ripetere la mia variante compositiva, e più grave ancora, ridevo pure da solo.

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