giovedì 30 aprile 2009

Grande in Giappone



Sempre per agevolare il lettore superstizioso, spariglio i 17 miei interventi del mese di aprile con questo storico brano condito della giusta tamarraggine anni '80. Quanto basta.

mercoledì 29 aprile 2009

La bacchetta spezzata, o della prestimiridirigiri-leccaculiz-zazione




Sono pesantemente in ritardo sulla notizia, ma vorrei spezzare una bacchetta magica in favore del povero Silvan.
In un suo recente intervento a “Domenica in”, il vetusto mago che tanti ammorbò istanti di nostra frale “fanciullezza anni ‘70”, ha subito l’onta di essere bacchettato per una battuta tutto sommato veniale e cattiva come il morso di un neonato al suo peluche preferito.
La cosa mi ha messo parecchia malinconia per i suoi tratti di ingiusta e stonata nemesi storica, toccata ad un personaggio che ha fatto per decenni la sua onesta parte nel mondo dello spettacolo.
Per lui che si è sempre destreggiato così elegantemente con la bacchetta in mano, mi è sembrata davvero un’ironia della sorte di pessimo gusto ricevere proprio il suo ferro del mestiere, così all’improvviso e tutto d’un botto, sulle unghie
Fermo restando il fatto che come personaggio possa piacere o stare sui maroni (e personalmente, pur non optando propriamente per la seconda alternativa, non è che mi abbia mai esaltato più di tanto), sinceramente non lo meritava.
L’avrete vista tutti la scena.
Spero non direttamente dalla mozzarellifera “Domenica in”, ma magari nella riproposizione del sempre geniale Blob, oppure anche sul web. Mentre si accingeva ad eseguire uno dei suoi giochi di prestigio con la collaborazione della conduttrice Lorena Bianchetti, il buon vecchio Saghibù (con questo nome, dice Wikipedia, Aldo Savoldello, non ancora Silvan, esordì all’età di 7 anni nell’oratorio Don Bosco di Venezia: anche quando, vi pare un inizio di curriculum avvicinabile per “sana malvagità satirica” a quello di Vauro?!?!?), ha detto che la bacchetta che stava brandendo l’avrebbe potuta magari prestare a Berlusconi.
A parte l’innocenza della sua uscita, da qualsiasi lato la si guardasse ed interpretasse, a me è parso che il nostro prestimiridirigizzatore patrio sia stato tra l’altro anche frainteso: io ho capito che volesse proprio dire una cosa positiva o al limite neutra. Nel senso di dire: magari potesse avere la bacchetta magica chi è al potere ed ha l’incombenza di prendere decisioni molto grandi, soprattutto in merito al recente dramma del terremoto in Abruzzo.
E invece no: apriti oh cu…ehm…oh cielo!!!
La brava presentatrice di regime prima è stata sulla graticola come una braciola per alcuni momenti, nell’attesa che il numero finisse, e poi si è stracciata le vesti a suon di dissociazioni, precisazioni dell’assoluto punto di vista personale della posizione espressa dal mago e giù di leccamenti smodati al “Sacro Establishment che sta nei Cieli e sempre sia benedetto”.
Il fatto è stato già commentato in lungo è in largo da penne ben più autorevoli della mia.
Volevo tuttavia aggiungere un paio di semplici considerazioni da “viandante per pensieri”, sempre attento a mettere in rilievo i dettagli inutili dell’esistenza, nella convinzione che spesso siano più sintomatici di quanto non lo sono gli aspetti comunemente reputati essenziali.
La cosa più impressionate in tutta la faccenda è stata la sua tristezza esagerata, che a mio parere ha causato immensamente più danno di quanto avrebbe fatto un dignitoso lasciar correre.
E la sublimazione più intensa di questa tristezza è venuta dal confronto fra due rappresentanti di diverse generazioni del mondo dello spettacolo.
Da una parte, il buon vecchio Saghibù, appunto: uno che ha iniziato a fare tv quando per entrarci si doveva saper fare qualcosa, uno che dopo aver segato più donne a metà di quante Rocco Siffredi se ne sia fatte e dopo aver tirato fuori dai cilindri più coniglietti di quelli dell’invasione australiana, si è guadagnato sette partecipazioni all’«Ed Sullivan Show», ha vinto due volte il premio «Magician of the world» (unico non statunitense a riuscirci) ed è anche collaboratore del CICAP, il «Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sul Paranormale», un gruppo di “addetti ai lavori” che smaschera bufale con pretese paranormali in mezzo mondo.
Dall’altra parte invece, una presentatrice che, per dirla con un antico adagio in uso nelle mie contrade, artisticamente non sa fare neanche una “o” con un bicchiere.
Ecco, con questo non è che voglia rimpiangere i bei tempi andati della Rai di democristiana memoria, che anche quella te la raccomando (…non so se si è colto il velato doppio senso).
Ma per quanto apparentemente secondario, è stato questo l’aspetto della cosa che più mi ha messo mestizia addosso: un “mondo” asfittico, vacuo e burocratizzato che faceva la predica ad un “mondo” della fantasia e della passione per le cose.
E’ stata esattamente questa la “quiddità” full of sadness che mi ha disgustato: una pioggia malefica di marche da bollo e timbri, tutti accaniti a soffocare la gaiezza e la libertà di una bacchetta magica.
Come vedere l’elefantiaca ottusità mortifera del “Grande Fratello” prendersi gioco della grazia di un duetto fra Mina ed Alberto Sordi.



lunedì 27 aprile 2009

QOOB e RomanzOtto


Oggi torno ancora un po’ sulla questione del digitale agricolo. Così intanto ne approfitto per riabilitare lievemente la mia ammuffita immagine di passatista e farvi vedere che “non è tutto vecchiume quel che sproloquia”.
A seguire, vi presenterò poi i miei ultimi otto romanzi, in versione integrale, dati alle stampe tutti d’un botto, giusto adesso proprio come se fosse ora.

Oltre ad Iris, il mio terricolo “rural-decoder” mi consente di captare anche un altro canale interessante: QOOB.
Cioè, per dirla tutta, non ho capito bene una cosa. Anzi due.
Una è se si chiami «Q “o maiuscolo” “o maiuscolo” B», oppure «Q “zero” “zero” B».
L’altra cosa è se sia un’emittente italiana o estera (però mi pare italiana).
Ma entrambe le cose sono irrilevanti rispetto al fatto che gli ideatori di questo canale, primo, l’hanno pensata davvero bella, e secondo, mi pare siano gente abbastanza avanti.
Si può dire che sia un canale tematico? Mah...non propriamente.
Almeno non nel senso stretto del termine. Però se come “tema” intendiamo anche una delle caratteristiche più pregnanti della modernità, allora sì, è un canale tematico. QOOB è il canale che tratta questo tema: «la vita moderna è un racconto narrato veloce».
Parlando in termini spiccioli, tutta la programmazione di QOOB è fatta di ogni sorta di cortometraggio. Mini-film veri e propri, o in versione cartone animato, o computer graphic, oppure piccoli reportage. Ed è incredibile come nel giro di 20 minuti - mezz’ora, ti puoi immergere in due o tre differenti storie, complete in se stesse, ricche di tanti spunti di riflessione ed emozione.
A volte sono poco più che sketch, a volte sono veri e propri capolavori in miniatura (almeno secondo il mio modesto giudizio), ma il livello di qualità è in generale sempre eccellente.
Dicevo che i creatori di questo canale l’hanno pensata bella perché la loro idea è geniale nella sua semplicità: per quanto ne ho capito, i lavori che presentano sono tutti opere di giovani registi, o perlomeno sono tutte ad alto gradiente sperimentale.
In questo modo prendono vari piccioni con una fava: i filmati sono spesso di qualità molto alta, si sente che sono creati da persone “affamate di bellezza”; fanno anche un servizio utile al mondo dell’arte, perché offrono la possibilità a tanti talenti di poter far vedere quello che valgono ad un pubblico abbastanza vasto; e non ultimo motivo, credo che stiano facendo una buona tv con un budget tutto sommato relativamente contenuto (anche se questo lo immagino io, in realtà non sono un esperto e non ci giurerei).
Unico limite è che, per forza di cose, i corti passano tante volte nel giro di pochi giorni, e capita di ritrovarseli spesso sullo schermo, ma va comunque detto che il turnover viene fatto con tempi del tutto dignitosi.
QOOB, dunque: altro buon frutto colto con il digitale agricolo.

Veniamo ora ai miei romanzi.
Ho già avuto modo in questa sede di far considerazioni su un fatto.
La bulimia informativa comporta il notevole rischio di farti di incappare nel caos e nello smarrimento mentale. Ma è anche innegabile che più libri leggi, più film vedi, più giornali sfogli, più stimoli intellettivi macini con la mente, e più i pensieri si contagiano e si autoalimentano per reciproca empatia. A volte spuntano fuori anche abbinamenti curiosi, coincidenze concettuali che sono piccole ma piacevoli soddisfazioni.
Mi è successo così che in una delle mie consuete visite al pregiato blog di Farlocca, mi ha incuriosito un link nel suo blogroll, e mi sono ritrovato in un altro bel luogo (http://sunofyork.blogspot.com), dove ho scovato un interessante scritto.

Ho letto di questa affermazione di Hemingway che, da gran fanfarone qual era, una volta avrebbe sbruffoneggiato da par suo circa la possibilità di scrivere un romanzo in sole sei parole. La cosa mi è sembrata molto divertente, anche perché mi ha subito fatto riecheggiare in mente le mie considerazioni su QOOB, sul narrare veloce e sulla “quantificazione mentale sintetica” che caratterizza i nostri tempi (simbolo della quale sono il video-clip e lo spot pubblicitario).
Così mi è venuto voglia di giocare a fare il “romanziere-espresso”.
Sottolineo che ho "giocato", perché quanto ne è venuto fuori assomiglia più a delle frasi divertenti che non sfigurerebbero sulla parete del cesso della stazione, ad uso e consumo del mingente viaggiatore frettoloso.
Mi sono comunque attenuto alla regola in tutti gli otto mini-romanzi, permettendomi il lusso, in un caso, di fare anche a meno di una parola (Hemingway trincava il Mojito, ma io m’ingollo di preferenza il Negroni e posso quindi permettermi di essere ancor più fanfarone di lui).
Ogni mini-romanzo non poteva mancare del suo titolo per il quale mi sono imposto di concedermi non più di due parole (con una sola piccola eccezione). I titoli sono quelli in grassetto: non si sa mai, meglio specificare, trattandosi di romanzi che potrebbero essere già di per sé dei titoli completi.
Buona lettura!

Romanzo 1 –
Genere: Fiaba post-moderna
Amor deluso
Cenerentola adesso usciva con le Clarks.

Romanzo 2 –
Genere: Satira politica
Me, te…ooohhh!
«Che tempo fa?»
«…premier è Berlusconi…».

Romanzo 3 –
Genere: Erotico
Anima aperta
Mutandine alla caviglia, gli si dischiuse.

Romanzo 4 –
Genere: Vetero-Neorealismo esistenziale
Cinismo
Di amare?...Non ne voglio sapere.

Romanzo 5 –
Genere: Romanzone d’appendice (Edizione speciale “Five words”)
Interludi
Con mani sensuose bramavamo sfioramenti.

Romanzo 6 –
Genere: Giallo
Irta grafia
L’assassino commise un errore: “secuoia”.

Romanzo 7 –
Genere: western anticlassico
Slowly killer
Sfoderò tardi la Colt. Sentiva freddo.

Romanzo 8 –
Genere: Intimista

Bussano. Non apro: sono già felice.


domenica 26 aprile 2009

Say the word - your wish is my command






Una delle più fantastiche canzoni dei Queen, nel pieno fulgore della loro epoca d'oro, che per me corrisponde a tutto il periodo in cui rimasero capelloni.
Anche dopo furono grandi.
Ma questo era stato di grazia puro.

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I can dim the lights and sing you songs full of sad things
We can do the tango just for two
I can serenade and gently play on your heart strings
Be your valentino just for you

Ooh love - ooh loverboy
What're you doin' tonight, hey boy
Set my alarm, turn on my charm
That's because I'm a good old-fashioned lover boy

Ooh let me feel your heartbeat (Grow faster, faster)
Ooh ooh can you feel my love heat
Come on and sit on my hot-seat of love
And tell me how do you feel right after-all
I'd like for you and I to go romancing
Say the word - your wish is my command

Ooh love - ooh loverboy
What're you doin' tonight, hey boy
Write my letter
Feel much better
And use my fancy patter on the telephone

When I'm not with you
I think of you always
(I miss those long hot summer nights)
I miss you
When I'm not with you
Think of me always
Love you - love you

Hey boy where do you get it from
Hey boy where did you go ?
I learned my passion in the good old
Fashioned school of loverboys

Dining at the Ritz we'll meet at nine precisely
One two three four five six seven eight nine o' clock
I will pay the bill, you taste the wine
Driving back in style, in my saloon will do quite nicely
Just take me back to yours that will be fine (Come on and get it)

Ooh love, (There he goes again just like a good old-fashioned lover boy)
Ooh loverboy
What're you doin' tonight, hey boy
Everything's all right
Just hold on tight
That's because I'm a good old-fashioned fashioned lover boy

sabato 25 aprile 2009

Digitale agricolo


Ragazzi tenetevi forte che vi do una notizia bomba: anche io ho fatto un piccolo passo avanti lungo il radioso cammino della modernità.
Mi sono dotato del digitale terrestre…BWAHAHAHAHA!!! (…scroscio di risa sguaiate provenienti dall’uditorio)…PRRRRRR!!! (…allitterazione inequivocabile, sempre dallo stesso uditorio).
E va beh. E datemi tempo. Sono pur sempre un povero campagnolo con un piede nell’«Età dell’Oro» e l’altro nella «Nostalgia canaglia».
Per me che mi devo ancora riprendere dallo shock affettivo causato dall’ultimo acquisto di una vanga con doppia staffatura ergonomica, causa arrugginimento definitivo del vecchio badile di famiglia, sono passi non da poco.
E poi c’è da dire che a metterci lo zampino ci pensa sempre la bilancia della “nemesi geografica” (come sbraitò una volta il sindaco Peppone Bottazzi in faccia a don Camillo).
Infatti, qui fra le sperdute lande dei “viandanti per pensieri”, quello che ci viene passato non è propriamente un digitale terrestre. Ecco, a me sembra di più un “digitale agricolo”, via.
Per dire: del segnale di Rai1, 2 e 3, al momento nemmeno l’ombra. Non parliamo poi della fantomatica Rai4.
Insomma, tocca confidare nel prossimo futuro, perché per ora slalomeggiando fra i tasti del telecomando mi pare che si trovino molti più fossi che canali (dei canali di poi son piene le fosse?...Boh!).
Ma si sa: fra i tratti privilegiati del campagnoleggiatore rientra anche il divertirsi con poco. Così, mi sono bastati due o tre soli canali nuovi che “…a modo mio, a modo mio sono / contento un giorno anch’io / E a modo mio, ringrazio Dio oggi / la storia la faccio io, a modo mio...”…ooops, scusatemi, mi si erano lievemente “in-Negrite” le idee.
Uno di questi canali è Iris.
Sull’impatto che ho avuto con Iris, c’è da dire una cosa buffa: quando uno è passatista latente fin nelle unghie dei piedi, riesce inconsciamente a ribaltare a favore di «Età dell’Oro» anche le più ghiotte occasioni di progressismo.
Iris ad esempio mi ha fatto regredire all’infanzia.
Scusate la metafora alquanto rozza, ma con gli altri canali ormai, “dig-i-amolo”, si ha la costante sensazione di stare seduti sulla tazza del water. Un po’ per le conseguenze metaforiche di prima istanza, ossia perché le trasmissioni fanno mediamente e veramente ca…ga…scegli la nota mancante: do, …, mi, fa, sol, la, si.
Ma soprattutto perché la valanga di pubblicità che ti riversano addosso è talmente pervasiva che ti senti così, come dire, quasi in colpa se non consumi. Il peccato originale è divenuto ormai marmellata rubata, rispetto al senso di colpa indotto catodicamente per aver sprecato un secondo della tua giornata avulso da intenzioni consumatorie.
Quindi, sempre metaforicamente, ti premunisci: sei di fronte alla tele, ma idealmente siedi sul trono ceramico deputato al ciclo continuo di consumo corporale, con la coscienza pulita e qualcos’altro invece un po’ meno.
Iris ha spazzato via di botto tutti gli anni durante i quali sono stato gradualmente (ma neanche tanto) calato in questa condizione di brucatore di spot.
Con quei suoi film dignitosi (non primissime visioni certo, ma sempre dignitosi), immuni da sozzume pubblicitario, mi ha catapultato ai tempi in cui c’erano due canali, i programmi iniziavano alle 5 del pomeriggio con la “Tv dei ragazzi”, ma tutto il cucuzzaro, quasi fosse un fuoco da preparare nel camino, si doveva accendere almeno un questo d’ora prima, per dar modo al trasformatore di scaldarsi, mentre sullo schermo l’immagine si arrotolava su se stessa per dieci minuti buoni prima di stabilizzarsi.
So che non durerà: per adesso fanno così, per farti ingolosire un po’. Poi ci sbatteranno dentro alcune prime visione e giù a far pagare.
Ma finché dura, io mi sintonizzo con puro spirito agricolo.

E dato che son stati chiamati in causa, gustateveli:



giovedì 23 aprile 2009

Un “tuffo nel cuore dei cieli dell’odore”


Il vero viandante per pensieri si contraddistingue tra le altre cose per il fatto di divertirsi veramente con poco.
Ma quando dico “con poco”, non immaginate nemmeno “quanto” poco. Praticamente con nulla.
Ho sempre avuto un debole per gli odori.
E “pur non avendo mai brillato come playboy” (mi si passi l’eufemismo spudorato), ho sempre avuto un debole anche per le donne.
Oh…le donne non piacciono mica solo ai dongiovanni. Anzi, forse sono proprio i Fracchia ad apprezzarle di più, perché una goccia di pioggia che cade nel Sahara fa molto più rumore di un acquazzone scrosciante sui verdi prati d’Irlanda. E non so se mi sono spiegato.
Basta dunque il classico “due più due” per arguire che ho sempre avuto un debole per l’odore delle donne. Ecco, detta così, suona alquanto “bestialis”, ma lasciatemi spiegare due cose.
Il “divertirsi con poco” in questione, avrete arguito anche questo, si pratica con maggior piacere con il ritorno delle belle giornate di sole.
Non si deve fare niente di più che passeggiare lungo un stradina del centro storico cittadino, respirare, e dunque annusare. Poi si sa, certi borghi sono stretti ed i marciapiedi si rifanno a medievaleggianti modi d’intendere la prossemica. Sono “genio-localmente” concepiti per far scaturire un senso della vicinanza fisica che privilegia un aspetto più pubblico e collettivo.
Allora metti che arriva su una ragazza, putacaso anche carina: la condivisione ravvicinata dello spazio calpestabile è cosa quasi obbligata.
A questo punto, potrà sembrare che la cosa si colori con i particolari tratti dell’invadenza e della maleducazione. Ma uno non lo fa mica apposta. Anche volendo, non lo può evitare.
Per rispetto, io ci ho provato anche a trattenere il fiato al profilarsi in lontananza di una gentile sagoma femminea.
Ma già ve l’ho detto: sulla soglia di casa non c’ho mica il codazzo di donne, lì pronte a forzare l’uscio per trascinarmi all’altare. Ci manca soltanto che quando ne incrocio una, lei mi veda arrancare al suo cospetto bello cianotico e col respiro che mi esce dalle orecchie, e stai sicuro che faccio colpo.

Mischia!!! Quante parentesi mi si aprono nella zucca quando scrivo! (…”mischia” sarebbe la versione di “minchia” secondo word).

Adesso ad esempio mi scappa una riflessione sull’odore in quanto elemento di definizione della personalità sensoriale di un individuo. Se ci pensate un attimo, poche parti del nostro fisico sono più “nude” del nostro odore. Nel senso che nel corpo c’è poco di così esposto come l’odore, di così in balia dell’appropriazione da parte degli altri.
L’odore in una persona è ancor più nudo della nudità stessa, perché quest’ultima è pur sempre più facilmente occultabile con i vestiti.
Mentre l’odore non riesci a nasconderlo se non a costo di immersioni in assetto costante in barili di acque di colonia o essenze profumate. Che poi anche questa rimane un’illusione, perché il naso è di una sincerità disarmante e sa andare a scovare, sotto i mille infingimenti sovrapposti attraverso un profumo posticcio, la vera base dell’odore della persona. Per quanto tu faccia, l'odore te lo può portare via chiunque.
Dirò di più: il naso proprio non sa mentire.
Infatti, per dire: se di fronte al miserando spettacolo offerto dall’architettura finto-disneyana di uno di quegli outlet tanto di moda, per quanto gliene frega ai vostri occhi potreste anche azzardare un timido e quasi scusabile: “…beh…carina…”.
O ancora, se incappando sonoramente in una pessima melodia di terz’ordine, non avendo un particolare pallino per la musica, per quanto gliene frega ai vostri orecchi potrebbe sfuggirvi un incauto ma comprensibile: “…mah…a me non dispiace…”.
Ma andateglielo a raccontare voi al vostro naso: provate ad entrare ad occhi chiusi in una stalla che ospita una cinquantina di belle floride mucche e giurare e spergiurare alle vostre narici che state passeggiando in un prato fiorito con aiuole di lillà olezzanti sulla vostra sinistra e bersò di glicine che rispondono aulenti da destra.

Ma tornando al “divertirsi con poco” in questione, mi piace immaginare che nel dialetto Lakota, qualche sciamano burlone avrebbe chiamato questo gioco il “tuffo nel cuore dei cieli dell’odore”.

Un odore di biondo, di saponetta delicata e di “interno dacia” affondata nel mare d’erba senza confini della taiga: ecco di cosa odorava il cielo che mi ha rapito il naso l’altro giorno passeggiando in un borghetto, lungo l’impalpabile scia fluitata a flutti da una chioma fluente, adagiata nel modo più elegante sopra un metro ed ottanta centimetri circa di ragazzona dai lineamenti slavi.
E’ stato così che la parte più bella del gioco che stavo costruendo, mi ha colto all’improvviso: quel “profum-odore” mi aveva talmente toccato nel profondo con la sua melodica olfattività, che mi è venuto da pensare a cosa sarebbe stata una possibile mia vita insieme a lei, tutta racchiusa in quell’essenza.
Sarei stato un ingegnere minerario nella Russia sovietica, ci saremmo sposati a Kiev, con viaggio di nozze in Kamtchacka. Ogni sera, dopo una giornata lavorativa intensa, sarei tornato alla nostra dacia, dove lei mi avrebbe aspettato per poter fare una dolce passeggiata insieme dopocena, dove il profumo della brezza risalente dai prati si sarebbe mescolata a quello di lei. Poi la perestrojka mi avrebbe aperto gli occhi…
…rendendomi chiaro il fatto che il borghetto stava volgendo al suo termine ed il grande viale trafficato della circonvallazione si appressava. E siccome una potenziale macchinata nelle costole non è cosa da annusare a cuor leggero, i miei pensieri si sono prosaicamente dissipati nell’impegno di badare a strisce pedonali, automobili e simili dozzinali inezie.

domenica 19 aprile 2009

Duecalzinità


Giuro che io m'impegno anche a non essere romantico.
Anzi, devo dire di aver fatto parecchi miglioramenti negli ultimi anni.
Mi aveste conosciuto ai bei tempi, vi sarebbe venuto il serio dubbio che il giovane Werther, in confronto a me, fosse poco più che un cinico biscazziere dell'ovest pronto a giocarsi la nonna con una sola coppia di otto in mano.
Il "danno" (all'unisono con l'immenso dono estetico) recato all'umano sentire da vagonate di Sturm und Drang, opere liriche, sinfonie, sonate, romanzoni russi, poeti maledetti, scribani fottuti, è stato talmente devastante che ancora oggi non se ne vede la fine.
Dall'Ottocento in poi, se sei un tipo di sensibilità media ed hai almeno la terza media, non puoi dire di avere avuto una storia d'amore con tutti i crismi se nel contempo non hai sputato l'anima sull'asfalto ogni attimo in cui hai pensato all'oggetto della tua passione.
Non puoi dire di essere amico vero di qualcuno se per lui non sei disposto a fermare un Tir in corsa, con la sola forza del ditone del piede.

Sia ben chiaro, vorrei precisare: non è che sto buttando tra le verze Beethoven, Dostoevskij e Chopin. E per fortuna che c'è Milan Kundera, il quale fa spesso importanti considerazioni sulla questione e come nessun altro mi chiarisce le idee su tematiche estetiche e significati dell'arte:

"...Le più grandi personalità letterarie dell'Europa centrale del ventesimo secolo (Kafka, Musil, Broch, Gombrowicz, ma anche Freud) si sono ribellate (molto isolate in questa rivolta) all'eredità del secolo precedente che, nella loro parte d'Europa, soccombeva sotto il peso particolarmente gravoso del romanticismo. Secondo loro è il romanticismo che, nel suo parossismo volgare, sfocia fatalmente nel Kitsch. E il Kitsch ai loro occhi (e a quelli dei loro discepoli ed eredi) rappresenta il supremo male estetico...".

"Un incontro" Milan Kundera - 2009

Insomma, succede così che tutto bello carico di teoria dell'arte e riponendo grande fiducia nei miei bravi antidoti contro il romanticume, poco fa ho formulato fra me e me questa suprema dichiarazione d'intenti: "...Vado un minuto fuori sulle scale a tagliarmi le unghie dei piedi...".
Ecco, qui a spiegarvi come mai nella mia instabile economia mentale proprio le scale vengano elette a sede di cure estreme inferiori, si farebbe notte.
Prendete per buono il dato: uno che si taglia le unghie dei piedi, in qualsiasi contesto si accinga ad eseguire l'operazione, dovrebbe sentirsi abbastanza al sicuro da attacchi di romanticismo proditorio inferto dalla realtà circostante.
E invece no.
Date retta ad un idiota: col romanticismo non si scherza, non puoi mai abbassare la guardia, perchè non sai mai quando ti può azzannare il polpaccio.
Già era domenica, e un po' avrei dovuto stare sul chi va là. La domenica è il brodo di cottura ideale per il romantico: il sabato del villaggio lo hai già bell'e che sprecato e se poi ci si mette anche una giornata uggiosa come quella di oggi, è un attimo a scivolare in atmosfere da Brianza velenosa.
Fatto sta che per via della micina che mi ronza intorno a casa, sono sprofondato niente meno che in uno dei concetti più pericolosamente romantici della storia: la "duecalzinità".
Questa micina è semi-domestica.
Si lascia avvicinare, sì, ma solo un poco, e poi a costo di mille moine e infingimenti, dichiarazioni di non belligeranza umana e chiare esibizioni di non voler eseguire movimenti troppo bruschi. Sapete come fanno i gatti.
Infatti, mentre mi tagliavo le unghie, la micina faceva proprio così. Un po' si strusciava, ma io dovevo stare semi-immobile. Qualche carezza in punta di pelliccia era concessa, ma la mano doveva approcciarla con la stessa lentezza dello sbocciar di una rosa. Ogni mossa più repentina, causava il suo delicato fuggi fuggi felino.
Ed è stato lì che il romanticume mi ha fregato.
Mi son venute in mente le varie scene di "Due Calzini", il lupotto di "Balla coi lupi" e a valanga mentale ci è andata dietro l'idea della "duecalzinità".
La "duecalzinità" è quella roba molto nobile, platonicissima, che vivono due persone (uomo e donna, donna e donna, uomo e uomo) quando si annusano le rispettive anime e sono in quella fase di possibile amore, oppure di possibile amicizia.
La "duecalzinità" è l'essenza del rapporto umano tenuto in sospeso.
Una sospensione nella quale spesso si preferisce crogiuolarsi, rimandando il più possibile l'approfondimento nella confidenza completa, per non far svanire la magia di quella tensione potenziale.
La "duecalzinità" è quella sottile pellicola d'aria che si è fieri di mantenere viva fra le mani di ciascuno dei due amici, mentre si avvicinano ma continuano a sperare di rimanere così per sempre, una ad un attimo dall'altra, sentendone solo il calore.

E adesso che anche per oggi ho terminato la mia andata per pensieri, ditemi voi se si può andare avanti così: non ci si può neanche tagliare le unghie dei piedi che ti ritrovi fra di essi il Romanticismo. Ma io dico: roba da matti!!!

P.S.R.A. ("Post Scriptum Romantico Aggravante"): la seguente scena non la posso vedere senza che mi si formi il lago Trasimeno nell'occhio destro e quello di Nemi nel sinistro.



sabato 18 aprile 2009

PERFEZIONE




E' che non me lo chiede mai nessuno...
Ma se mi chiedessero qual è per me il brano "PIU' PERFETTO" della Storia della Musica, da quando ad Anulus Melodicus il Grande (primo degli anelli di congiunzione fra la scimmia e l'uomo con la fissa per le sonorità) venne il ghiribizzo di dare una mazzata con la clava sopra un tronco cavo, fino a "Sincerità" di Arisa, risponderei:

Canon in D Major, Johann Pachelbel
Canon in D Major, Johann Pachelbel
Canon in D Major, Johann Pachelbel
Canon in D Major, Johann Pachelbel
Canon in D Major, Johann Pachelbel

Quasi perfetto come il mio sasso perfetto al 100%...ma è che nessuno me lo chiede mai...


venerdì 17 aprile 2009

E tutt’ d’èn tratto, il coro!!!


Lo status di pendolare provoca uno strazio agli zebedei non indifferente. Ma c’è da dire tuttavia che questa condizione, guardandola da un differente punto di vista, ti regala anche qualche mezz’oretta giornaliera in più per osservare il mondo.
Stamattina ad esempio, son stato colto da sommo stupore guidando.
Ad un certo punto del mio percorso quotidiano, c’è una curvetta piuttosto secca, di quelle che a non farle piano potresti anche essere assunto seduta stante dall’ANAS in qualità di “fossi-mensore” (leggi “misuratore di fossi”).
In questo contesto guidatorio, sia per la prospettiva sia per la velocità, c’è modo di osservare con comodo un praticello, che quasi non sai più bene dove finisce il cofano e dove comincia l’erba.
Ora, giusto ieri quel grazioso fazzoletto verde lo avevo visto scorrere alla mia sinistra tutto ammantato di fiorellini gialli.
E stamattina…mo vàca d’un porco…eccolo lì che mi sorpassa a destra tutto puntinato di vaporose pallette di pelo vegetale.
Anche ad un campagnolo scarso come me, la prima idea che è venuta alla mente è stata: “Ah già …tarassaco ….dente di leone …dandelion …già, non ci avevo pensato ieri…”.
C’è voluto un attimo per riprendermi dallo smisurato orgoglio scatenato nell’animo dal mio geniale acume botanico, ma subito dopo mi ha folgorato un altro pensiero.
E il pensiero era che quando la natura si mette a cantare in coro così, non so come mai, ma mi esalto da matti.
Voglio dire, forse non mi sono spiegato bene: i fiorellini tarassacosi in quel prato non sono mica due o tre.
Parlo di una gran sfiorellata imperiale di alcune migliaia di esemplari. Tanto che nei giorni scorsi avevo anche fatto un pensierino se prendere su la macchina fotografica ed immortalare quella gran rasoiata di giallo sopra al suo soffice fondo verdeggiante.
Ma tutti in una notte sola, all’unisono, come condotti da un direttore d’orchestra, mi hanno fatto questa beffa stupenda: si sono impallottiti a piumino dal primo all’ultimo, e nel campetto non c’era più nemmeno una virgola di giallo.
Chissà, magari a qualche leprotto svagato che zonzava da quelle parti per rimorchiare nottetempo la sua leprotta dei sogni, sarà successo di assistere in diretta all’attimo esatto dell’impiumaggio.
Il Gran Capo Fiore del campo, nonno e patriarca di tutta il cuccuzzaro fiorito, ad un certo punto, come il grande Carlo Dapporto in quel vecchio Carosello della “Pasta del capitano”, avrà esclamato in dentedileonese: “…E tutt’ d’èn tratto, il coro!!!...”, e sotto la sua pancia il leprotto stupito avrà sentito di colpo il piacevole solletichio dei pallini piumosi neonati.
Così poi ho ripensato anche alle volte che nel cielo si vede uno stormo abbastanza consistente di uccellini o bipedi volanti anche un po’ più grossini, tipo anatre o simili, e alla magia che scatenano quando li vedi fare quegli scarti infiniti, virando bruscamente con movimento repentino e perfettamente corale, “come un sol uccello”. Perché il paragone con la cabrata dei denti di leone tutti insieme verso la modalità piuminesca mi sembrava quasi lo stesso fenomeno tradotto in linguaggio floreale.
E poi ho pensato anche che se un botanico esperto leggerà queste poche righe, gli verrà da dire: “…Toh, è arrivato lui…er Linneo de’ noantri…è sceso dal pero con ‘na secchiata d’acqua calda e c’è venuto a dire sta gran novità sul tarassaco…”.
Ma il punto è proprio questo, riflettevo ancora: l’importanza di saperci guardare intorno, essere curiosi, osservare le piccole cose, soprattutto quelle della natura. Una sensibilità che abbiamo un po’ perso e che bisognerebbe cercare di tornare a coltivare….va beh, sempre stando attenti al fosso, s’intende.

Tutt’appossc-to…e anche per oggi: that’s all folks!!!...e compreso nel prezzo, beccatevi pure queste pietre rotolanti d’annata, che guarda caso cadevano proprio a fagi-u-olo.


giovedì 16 aprile 2009

Biografia, biografia, per piccina che tu sia…


Questa è una epifania del lettore “binaria” e “sulla fiducia”.
Dico che stavolta dovrete un po’ fidarvi di quanto vi racconto io, perchè considerata l’articolazione di pagine sulle quali il discorso si dipanava nei relativi testi, non riuscirei a citare brani sufficientemente circoscritti per suggellare il mio concetto odierno.
L’epifania è poi binaria nel senso che è nata da un incrocio di suggestioni derivate dalla lettura di due libri in contemporanea.
Così per inciso, questa è anche l’occasione per parlare di due diverse modalità possibili di lettura.
E’ meglio un libro alla volta, portato rigorosamente dalla prima all’ultima pagina senza altre distrazioni narrative? Oppure sono da preferire tante letture in parallelo, più libri tenuti alla briglia fianco a fianco, come fa il cavallerizzo acrobata del circo, puntando i piedi sulla groppa del cavallo centrale?
Da un punto di vista squisitamente teorico, la migliore per me sarebbe la prima strada: leggere un solo libro dall’inizio alla fine. Ne guadagna la coerenza, affronti un mondo narrativo con maggiore armonia, tenendo a mente più dettagli che si inseriscono meglio nel quadro degli argomenti trattati dal testo.
Ma si sa: come ricordavano le Storie Tese insieme ad Elio, «…tra il “dire” e il “fare” c’è di mezzo “e il”, e una rondella non fa primavera…».
Infatti sul piano pratico devo fare spesso i conti con una irresistibile attrazione bulimica verso la parola scritta e va a finire che mi ingolfo il comodino di libri assortiti.
A leggere più libri insieme, comunque, oltre al pericolo di fare un po’ di confusione, ci sono anche aspetti positivi. I concetti pescati nei vari testi, si contaminano, si mescolano, si contagiano, si ritrovano imparentati. E l’andata per pensieri ci guadagna.

Va beh, ora che il cane è stato ben menato per l’aia, veniamo al dunque.
Il dunque è la biografia delle persone.
Ciascuno di noi si tira dietro questo fantasma. Dico “fantasma” perché è vero che la nostra biografia ci è necessaria come bussola esistenziale, come boa di orientamento tra i flutti “identito-fagi” della vita, però se ci pensate su bene, in realtà la nostra biografia è la cosa più inconsistente che si possa immaginare.
Io oggi ho un modo di considerare i dati e gli avvenimenti che mi riguardano risalenti a 10 anni fa (per dire), che è magari già un po’ diverso da come li valutavo ieri, e diversissimo ancora da come me li raffiguravo un anno fa.
E tuttavia abbiamo bisogno dell’illusione che la nostra biografia sia salda, definita ed univoca.
Rassomiglia più ad un film dalle immagini mutevoli ogni volta che la andiamo a proiettare di nuovo nella nostra mente, ma abbiamo bisogno che sia circoscritta, misurabile e quantificabile come un luogo concreto. Perché la nostra identità si gioca praticamente tutta lì.

Prima ho detto che non avevo trovato brani sufficientemente sintetici per collegarmi a questo discorso, ma giusto adesso mi contraddirò pesantemente (oh…è pur sempre il mio blog e qui su mi contraddico finché mi pare).
La contraddizione però è solo apparente: i brani che citerò non sono infatti esaustivi della presente epifania del lettore, ma solo barlumi di essa.
Ecco il passaggio, tratto da uno dei due bellissimi libri letti all’unisono:

«…Quando prendo in esame la mia vita, mi spaventa di trovarla informe. L’esistenza degli eroi, quella che ci raccontano, è semplice: va dritta al suo scopo come una freccia. E gli uomini, per lo più, si compiacciono di riassumere la propria esistenza in una formula – talvolta un’ostentazione, talvolta una lamentela, quasi sempre una recriminazione; la memoria compiacente compone loro una esistenza chiara, spiegabile. La mia vita ha contorni meno netti, la definisce con maggior esattezza proprio quello che non sono stato…[…]… Mi studio di ripercorrere la mia esistenza per ravvisarvi un piano, per individuare una vena di piombo o d’oro, il fluire d’un corso d’acqua sotterraneo, ma questo schema fittizio non è che un miraggio della memoria…».

Memorie di Adriano
Marguerite Yourcenar – 1963

La “binarietà epifanica” è scattata poi con la lettura parallela di “Il codice dell’anima”, di James Hillman.
Passando in rassegna le autobiografie di tanti personaggi famosi (Henry Ford, Leonard Bernstein, Henry Kissinger, ecc.), Hillman segnala come molto comune fra questi ultimi il vezzo di aggiungere “ex post” alle proprie esistenze dettagli “non propriamente accaduti”.

«…”Più divento vecchio,” pare abbia detto Mark Twain “più vividamente ricordo cose che non sono avvenute”. …[…]…Le “falsificazioni” biografiche fanno parte dei fatti narrati tanto quanto i fatti in sé…[…]… Tutti noi veniamo inventati via via che viviamo, anche se non sembra esservi un filo coerente che leghi fra loro gli eventi casuali della giornata. I ricordi autobiografici forniscono quel filo. Retrospettivamente, l’infanzia acquista senso…[…]…Ma questo ricordare “cose che non sono avvenute”, come diceva Mark Twain, è falsificazione o rivelazione?...».

"Il codice dell’anima
James Hillman - 1996

La domanda di Hillman mi pare sia pienamente retorica.
Principale preoccupazione del grande psicologo Junghiano non è infatti quella di segnalarci l’essenza di “caga-balle” preminente in quei personaggi famosi.
Quel ricordare “cose che non sono avvenute” va intesa come “rivelazione”. E’ come se ciascuno di quei grandi, dopo aver percorso buona parte del cammino di sua vita, avesse più chiaro il “disegno” generale della medesima.
Sotto tale risvolto, il dettaglio inesistente aggiunto ad arte non rappresenta un gesto di arroganza millantatoria, ma è il necessario ingrediente per far comprendere ed onorare meglio la coerenza narrativa di un’esistenza, “più vera del vero” nella sua essenza “sovrastorica”.

sabato 11 aprile 2009

Pasqua felina a tutti

Vorrei fare gli auguri di buona Pasqua a tutti i miei cari lettori, fondando nel contempo anche una nuova arte. Cioè, non è che la fondo io, a dire il vero. Si tratta di un'arte che non viene nè da me, nè da nessun altro umano. E non nasce nemmeno adesso. Sono secoli che esiste e la praticano i nostri amici gatti.
E' l'arte dello "scovare i posti più buffi e strani in cui dormire".
Questo campagnoletto palla di pelo che vedete nella foto ha ben pensato poi di applicarsi in modo particolarmente consono alla ricorrenza, auto-confezionandosi in foggia di uovo pasquale pelliccioso dentro un vaso che forse poi ospiterà anche dei fiori, ma nel frattempo ci è sbocciato lui.
Pasqua felina dunque e un abbraccio a tutti quelli che son passati, passano e passeranno di qui!




Your lips move, but I...


"...Ricordo, a proposito dei sentimenti che giustificano la crudeltà umana, una riflessione di Carl Gustav Jung. Nella sua analisi dell'Ulisse, definisce James Joyce «il profeta dell'insensibilità»: «Noi possediamo» scrive «alcuni dati per comprendere che l'inganno sentimentale ha raggiunto proporzioni veramente eccessive. Pensiamo al ruolo realmente catastrofico dei sentimenti popolari in tempo di guerra ...Il sentimentalismo è una superstruttura della brutalità. Sono convinto che siamo prigionieri del sentimentalismo e che, di conseguenza, dobbiamo trovare perfettamente ammissibile che nella nostra civiltà sopraggiunga un profeta dell'insensibilità»..."

"Un incontro"
Milan Kundera - 2008

Mi sono astenuto dal parlare della tragedia del terremoto, per diversi motivi.
Un po' per pudore, perchè quando accadono fatti così gravi ho sempre l'impressione che venga detto tanto, troppo, e spesso male.
Un po' perchè mi sento inadeguato di fronte a questioni così grandi e, riprendendo in parte la motivazione precedente, preferisco lasciare che ne parli chi più di me ha competenza ed autorità in merito.
E un po' anche perchè alla fine mi pare sempre di ritrovarmi a constatare che il mio "parlar di nulla" può giungere a sfiorare aspetti dell'esistenza ben più profondi di quanto non possa fare un parlare all'apparenza più "impegnato" e "realistico".
Questo, non per il fatto di possedere io chissà quale particolare acume, o spiccato senso critico, oppure capacità di analisi speciali. Ci mancherebbe, non mi permetterei mai di fare un'affermazione così bislacca. Il mio senso critico è giusto giusto pari a quello di un bastardo qualsiasi e ci tengo a ribadirlo.
Il mio "parlar di nulla" è invece capace di cogliere significati più pregnanti della vita perchè nel suo cammino si affida spesso ai sentieri tracciati dai grandi "cercatori di bellezza e verità", i traghettatori supremi verso i lidi dell'arte e della filosofia.
Ed è stato così infatti che sleggiucchiando l'ultimo saggio di Milan Kundera uscito da poco in libreria, sono incappato in un passo che, pur rimanendo fermo il mio intento di non voler trattare della "cosa in sè", mi riporta a parlare di quanto è accaduto a contorno dei drammi causati dal terremoto.
Facendo mente locale a quanto purtroppo visto in varie salse su varii canali tv in questi giorni, grazie al brano di Kundera che cita Jung, ho capito più a fondo come la "dittatura del sentimentalismo" abbia dispiegato come non mai i suoi devastanti mezzi in questa mestissima occasione.
E con quell'adamantina espressione Junghiana nella mente, "Il sentimentalismo è una superstruttura della brutalità", mi è sembrato come mai opportuno domandarmi se veramente non si rendano conto, i mille e uno Bruno Vespa coi loro pelouche in mano raccattati fra le macerie, di quanto danno procurano alla civiltà e alla dignità dell'uomo.
E mi sono sempre più convinto della saggezza contenuta nello stupendo verso di una delle più fantastiche canzoni dei Pink Floyd.
Profeti d'insensibilità, completamente "comfortably numb" nell'animo: è proprio così che abbiamo il dovere di sentirci di fronte agli attacchi d'inciviltà sferrati dall'esercito sentimentale dei Bruni Vespi.
E mentre le immagini piovono dallo schermo sul loro blaterare invano, pensare sereni nel nostro intimo: "...Your lips move, but I can't ear what you're saying...".

P.S.: Quanto detto va anche inteso di riflesso come un elogio dei giornalisti "veri", quelli che rendono onore genuinamente a questa professione che fu anche di Hemingway e di Pier Paolo Pasolini.



giovedì 9 aprile 2009

Quando la poesia pesta duro

Perchè quando giro in bici, cuffietta mp3 nelle orecchie e sotto i Nirvana a pistonare come dei magli sonori, mi viene da pensare che anche se andassi a sbattere contro un albero pedalando a tutta birra, la cosa avrebbe comunque i suoi risvolti di potenza poetica?


martedì 7 aprile 2009

Spezzanulla


Non mi sento di dire niente di niente in questo momento e tanto meno a proposito del dramma che ha colpito i nostri amici abruzzesi.
Sia perchè è una roba troppo grossa per un misero blog abituato spesso e volentieri a fraseggiare sul nulla.
Sia perchè in questi casi, ogni parola è sempre di troppo e al contempo è sempre anche troppo poco.
I miei inutili fraseggi ritorneranno.
Solamente, mi sembrava ingiusto magari riprendere fra qualche giorno a scribacchiare insensibilmente, seguendo i miei usuali "non-argomenti", come se niente fosse stato.
Così per il momento inserisco solo questa immagine "spezzanulla".
Il resto delle cose, a proposito del mondo, della vita e dei loro imperscrutabili risvolti, ciascuno le può leggere come meglio crede nel proprio cuore.



sabato 4 aprile 2009

Il mio Sasso perfetto al 100%


"...Dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori...".
Lo ha detto Fabrizio De Andrè.
Ed ha detto molto bene.

Premessa
fraseggiata sul nulla

Le pietre sono cosa non viva, a quanto pare, e come tali hanno poco da dire ai viventi.
Proprio in ragione di tutto questo, non avrei mai immaginato di affezionarmi ad un sasso.
Però è successo.
Parafrasando Murakami Haruki ("Vedendo una ragazza perfetta al 100% in una bella mattina d'aprile", in "L'elefante scomparso e altri racconti"), per me è il Sasso perfetto al 100%.
Tanto per cominciare, a differenza dei diamanti, il cui valore si misura in Kt ("karat"), il pregio del mio Sasso è quantificabile in una nuova unità di misura per le pietre che ho ideato recentemente (per dirla tutta, l'ho creata proprio adesso).
Il valore del mio Sasso si esprime infatti in Cdk ("Cipp-de-kazz").
Un carato, Kt, equivale a 0,2 grammi di materiale diamantoso. La Cdk si utilizza invece solo in espressione singola: il mio Sasso infatti in termini economici vale esattamente una "Cipp-de-kazz", che sarebbe a dire niente di niente, nisba, nulla, nada, zero al quoto.
Coro: "...Ohibò!...e cosa dovremmo allora farcene di un sasso che non vale nulla?...".
Attenti alle parole, Coreuti!
Io non ho detto che "non vale nulla". Ho detto invece che non vale "economicamente" nulla, e questo fatto è già di per sè il suo primo grande pregio.
Il mio Sasso non vale nulla e come tale non mi dà nessun pensiero per quel che riguarda ipotetici furti. Non sono costretto infatti ad assicurarlo, nè a tenerlo in una cassetta di sicurezza o in caveau (oh porca putteau...ma come parlo?!?!?).
Se ne sta semplicemente sul limitare dell'orto, e se devo dirla tutta, oggi si è preso pure la pioggia, ma non per questo il suo valore ne è uscito sminuito.
I diamanti, tutti li vogliono, ma per paradosso si dice che son roba esclusiva, ossia tendono ad escludere, ad allontanare chiunque.
Il mio Sasso è invece iper-inclusivo: potrebbe essere a disposizione di tutti. Ma per fortuna, ed è il secondo suo immenso valore, nessuno lo vuole.

Epifania del lettore
fraseggiata sul nulla

In un brano del bellissimo romanzo di John Steinbeck "Tortilla flat" (che purtroppo ricordo vagamente, portate pazienza se rappezzo con la fantasia i passaggi che non mi sovvengono precisi...), Danny, uno dei protagonisti, un vagabondo che tira a campare un po' come e dove capita, un bel giorno eredita una casa da un parente lontano.
Lì per lì, gli sembra una gran cosa. Lo sanno tutti che possedere cose è roba distinta e da signori. Lo dicono tutti che avere tanto è meglio di avere poco. Danny non può fare a meno di riflettere: se tutti la pensano così, vuol dire che "si deve" pensare così.
Ma il pensiero di avere una casa rende triste Danny. Ora ha nuove preoccupazioni che prima, quando scorrazzava felice per le campagne intorno a Monterey ubriacandosi con gli amici, non sapeva nemmeno esistessero.
Un bel mattino Danny, risvegliandosi da una sbornia smaltita all'aperto, scopre che la sua casa è andata a fuoco. Ma le fiamme che hanno distrutto completamente l'edificio pare che adesso continuino ad ardere gioia nel cuore di Danny. Il mite "paisano", liberatosi da quella fottuta casa e da tutti le preoccupazioni che si era portate dietro, ora è tornato ad essere felice.

Il mio Sasso perfetto al 100% è come la casa bruciata di Danny. Con il vantaggio che è già bruciato da sempre: non ha mai avuto nessun valore e mai ne avrà alcuno.
Però posso dargli tutti i valori che la mia fantasia mi può suggerire. Valori ultra-esclusivi. Infatti escludono chiunque, tranne uno scentrato come me.

Favola
fraseggiata sul nulla

Il mio Sasso allora è stato per 300 anni fra i flutti di un torrente dello Yukon. Per questo ha quella bellissima forma levigata ad uovo.
Al momento dell'esplosione della febbre dell'oro, finì mescolato al materiale scartato dopo il vaglio delle pepite.
C'era un cercatore, il più sfortunato di tutti.
Non trovò nemmeno un pagliuzza gialla. Con le scatole rotte a furia di setacciare a vuoto, un giorno dalla rabbia stava dando un calcio alla prima cosa che gli capitasse fra i piedi, e quella cosa era proprio il mio Sasso perfetto al 100%.
Incuriosito da quella sagoma perfetta, il cercatore arrestò lo stivale ad un cm. dall'impatto col Sasso. Invece di calciarlo, lo raccolse. Era talmente incazzato con la vita, che gli sembrava sempre più maledettamente insensata.
Così pensò: "...Finora mi sono sempre comportato secondo giudizio e ragionevolezza, e come ricompensa mi sono sempre successi fatti senza capo nè coda. Adesso provo a cambiare: voglio fare una cosa totalmente irragionevole e vedere se me ne ritorna indietro qualcosa di buono...".
Raccolse il mio Sasso perfetto al 100% e lo portò in dono alla ragazza più carina del suo paese, della quale era innamorato da anni, senza avere mai avuto il coraggio di dichiararsi.
Alla partenza per lo Yukon aveva fantasticato di tornare a casa e chiederla in sposa coprendola d'oro.
La ragazza, alla vista dell'umile ma perfetto dono, si commosse per la sconfinata ingenuità del giovanotto. Si fidanzarono e dopo un po' si sposarono.
L'ex cercatore d'oro ricordava di aver letto da qualche parte una frase, forse sulla Bibbia: "...non voglio essere ricco, ma non voglio essere povero...".
Visse a lungo insieme alla sua donna, con questa frase sempre in mente a guidare le loro giornate, e facendo spesso l'amore.
Sempre contenti del loro giusto e ricchi sopratutto di se stessi, con il mio Sasso perfetto al 100% posato sulla mensola sopra al camino.
Uno dei loro figli divenne un grande marinaio, e il giorno in cui ottenne il suo primo comando della sua prima nave importante, mamma e papà gli affidarono il mio Sasso perfetto al 100%, ritenendo che alla loro vita aveva già donato tanto.
"...Nessuno possiede mai davvero niente..." gli dissero passandogli il pietroso ovetto, "...e nessuno può possedere mai nessuno: la vita è un cammino, attraverso cose e persone".
Il figlio dell'ex-cercatore trascorse tanti anni navigando sin nei posti più lontani del mondo, conobbe tanti luoghi e genti diversissime e fu felice della sua vita.
Il mio sasso perfetto al 100% stava sempre nella cabina di comando della sua nave, vicino al sestante e alle carte nautiche.
L'ammiraglio non si legò mai stabilmente ad una donna, ma ricevette e diede amore e conoscenza a tutta la gente che veniva in contatto con lui.
Strinse un'amicizia molto bella con un marinaio e quando ormai vecchi abbandonarono i mari, separandosi per fare ritorno ciascuno alla loro terra d'origine, l'ammiraglio gli disse: "...Nessuno possiede mai davvero niente e nessuno può possedere mai nessuno: la vita è un cammino, attraverso cose e persone", e regalò il mio Sasso all'amico raccomandandogli di ridonarlo alla terra, quando si fosse accorto di essere divenuto una cosa sola con la serenità.
Il marinaio amico dell'ammiraglio era europeo e trascorse la sua vecchiaia girando per tutti i paesi del continente. Un giorno il suo cocchiere sbagliando strada finì con la carrozza nel bel mezzo di una pianura nebbiosa.
L'anziano marinaio si rallegrò di quel piacevole smarrimento e nel medesimo istante fu folgorato dal pensiero della preziosità del non possedere assolutamente nulla, nemmeno la nozione del luogo in cui ci si trova.
Subito capì che quello era il momento di far tornare alla terra il mio Sasso perfetto al 100%.
Si sporse dalla finestrella del cocchio e lo lanciò con un "puff!!!" nella coltre bambagesca di nebbia.

Da allora il mio Sasso perfetto al 100% sta sul limite dell'orto: nessuno lo possiede e nessuno lo vuole.
E lui vive contento di sè e della sua mancanza di valore, perfetta al 100%.




venerdì 3 aprile 2009

Paghi una, prendi tre


Il mestiere dell'epifanaro (il collezionista di epifanie del lettore) è ricco di sfumature.
Dopo un po' di tempo che uno lo pratica, se ha discreta memoria, si costruisce una piccola mappa mentale epifanica: "...Là ci sta quella perla che riguarda la tale idea...bello!!!...ah, là invece, c'è quell'altra pietruzza concettuale che mi colora un altro aspetto della vita...Già!!!...forte!!!...".
Per l'epifanaro smemorato come me invece la scia di epifanie che ci si lascia dietro è un po' come la trafila di mollichine di pane che Pollicino aveva lasciato cadere nel bosco per ritrovare la strada: gli uccellacci della sbadataggine e della scarsezza mnemonica sono sempre in agguato per becchettarsi via le briciole, e alla fine si corre il serio rischio di cadere nelle fauci del tremendo Orco dell'oblio.
Però almeno ci sono i libri di casa, che sono posti in cui sai di aver lasciato cadere una briciolina e la puoi andare a tirare fuori di nuovo.
Ma non è sempre cosa facile.
Ad esempio, per ritrovare una piccola briciolina che sapevo aver lasciato cadere più di trent'anni fa dentro "La luna e i falò" di Pavese, ho dovuto recentemente rileggere tutto il romanzo. Sì, perchè in certi casi puoi magari ricordare più o meno il punto del testo dove la mollichina sta celata, ma rileggendo con fare rapido a "sguardo d'uccello" lungo le frasi, vigliacca se salta fuori.
Ma capitano anche casì fortunati, come mi è successo ieri.
Avendo disquisito, in sede di commenti, con quel Mito della Simpatia nota come Farlocca, sulla questione del dormire e del pigliar più o meno pesci, mi era tornato alla mente un brano del "Tao Te Ching" che se avessi la passione per i tatuaggi non esiterei a farmi stampigliare sulla fronte.
Il "Tao Te Ching" è un luogo di briciole narrative piuttosto agevole, ci si orienta bene, perchè è diviso in capitoli succinti di una pagina, coi loro bei numeri romani e le frasi messe giù quasi come in versi.
Ho iniziato dunque la mia ricerca della briciola con molta calma e serenità, fiducioso che l'avrei trovata a breve, l'animo bel lontano dall'ansia che mi avrebbe colto se, per dire, avessi dovuto rintracciare un ago epifanico in un pagliaio come "L'uomo senza qualità" di Musil.
Ed è qui che mi sono imbattuto in un "in-matrioskamento" di epifanie del lettore.
Dentro al "Tao Te Ching", proprio nel punto del brano che aveva scatenato la mia ricerca, ho scovato un fogliettino così sottile da non avere nemmeno la forza di "segna-librare" la pagina, ma sul quale a suo tempo (tempo di chi? Ma suo!!!) mi ero appuntato altre due mini-epifanie tascabili.
Di una delle briciole rinvenute, purtroppo non mi ero segnato l'autore. Ma è talmente bella che subito mi son detto: fa lo stesso!
Ed è questa:

"...la bellezza non spiega nulla, perchè rivela tutto...".

L'altra era pure appuntata anonima, ma almeno in questo caso la memoria mi è venuta in aiuto, perchè mi sono subito ricordato che si trattava di una frase del grande designer Bruno Munari:

"...Se leggo, dimentico. Se vedo, ricordo. Se faccio, capisco...".

Questa mini-epifania era talmente "zen" nella sua concisione da essere perfetta per introdurmi alla rilettura del brano del "Tao Te Ching" da cui tutta la ricerca aveva avuto inizio:

"...Senza uscire dalla porta, conoscere il mondo!
Senza guardare dalla finestra, vedere la Via del cielo!
Più lontano si va, meno si conosce.
Perciò il Santo conosce senza viaggiare;
egli nomina le cose senza vederle;
egli compie senza azione...".

Mancando sicuramente il senso più genuino di queste parole, io le ho sempre comunque lette come l'inno nazionale della mia pigrizia. Ed è così che mi piace continuare a leggerle.
In realtà credo siano più un esortazione a saper vedere l'essenza delle cose. Poi credo che uno possa pure viaggiare fin che vuole, oppure agire in lungo e in largo come meglio ritiene. Il punto è che se rimane alla superficie del mondo, può arrabattarsi come un ossesso, ma dei pesci che veramente contano nella vita non ne piglierà mai neanche uno.

Ed è stato così che, epifaneggiando ed andando per pensieri e briciole, mi è tornata alla mente un'altra importante mollichina musicale legata a tutto ciò.
Questo brano del "Tao Te Ching" è stato infatti musicato da George Harrison a suo tempo.
Tempo di chi? Stavolta tempo di George...





giovedì 2 aprile 2009

La moda la g'ha una fòrsa de leùn


“…La televisiun la g'ha una fòrsa de leùn
la televisiun la g'ha paüra de nisùn
la televisiun la t'endurmenta ‘me un cuiùn…”

Non so se due ragazze sono sufficienti per fare un moda.
Forse sono troppo poche.
Ma nel caso l’abbinata bastasse, in questi versi cruciali di Enzo Jannacci sostituirei senza remore la parola “televisiun” con la parola “moda”.
I fatti sono questi: nei giorni scorsi ho visto due diverse ragazze, in due diversi ambienti cittadini, indossare un paio di stivali Superga (…sì può dire su un blog, vero? No?...).
Non erano un modello particolare, intendiamoci. Si trattava proprio di quegli stivali molto spartani, molto anni ’70 di provincia, quelli di chiara origine contadina per l’utilizzo primario che ne è sempre stato fatto in questo ambito lavorativo.
E c’è da dire che le due ragazze non erano vestite in modo casuale. Per il resto dell’abbigliamento, in loro si notava una certa ricerca del trendy, del fashion, del cool. Quindi ho pensato che la scelta dello specifico stivale fosse dettata da un loro disegno d’insieme modaiolo nel quale nulla era lasciato al caso. Tra l’altro, una ragazza stivalata l’ho vista in ambiente lavorativo, mentre l’altra passeggiava nella via più esclusiva della città.
Quindi, non ci sembra essere nessun dubbio che le due signorine sapessero bene cosa volevano riguardo il loro abbigliamento, non erano due “vestenti” sprovvedute.
Questo conferma ancor più tenacemente quanto sia pervicace ed energico il potenziale influenzamento da parte della moda.
Io questi stivali, l’ultima volta che li avevo visti (e sarà stato giusto nel 1975), erano in una stalla, ai piedi di un vaccaro più avvezzo a calpestare “boasse” di mucca che non il modaiolo suolo porfidato della strada cittadina più “in”.
Ma ormai è risaputo: sono un povero campagnolo e certe cose mica le capisco, io.



mercoledì 1 aprile 2009

Genius temporis


Sembrava un’ora fa che avevamo tirato indietro di un’ora.
E invece rieccoci qui a rimetterci ancora avanti.
Sembrava un’ora fa che, per la sospirata fine dell’ora legale, mi ero sbizzarrito a rimodellare con gaudio l’«A se stesso» di giacominica memoria.
E invece sono passati già 5 mesi circa.
So di non avere alleati in questa causa persa nonché inutile.
Tutti a dire “che bello”, ”c’è un’ora di luce in più alla sera”, ”torno a casa e posso fare ancora tante cose”, ”there are birds on the trees”…et quartetto cetera, et quartetto cetera.
Fin qui posso essere d’accordo: a chi non piace vedere la sera che arriva potendola chiamare ancora giorno?
La mia avversione per l’ora legale non ha infatti sfumature di tono meramente cronologiche, ma presenta caratteri ben più esistenziali.
Ha a che fare con il genius loci.
O meglio, con il genius temporis.
Mi appello al mio diritto (riconosciuto dalla Convenzione Universale dell’Età dell’Oro) di medievaleggiare in santa pace, e mi dispiace, ma un’ora della giornata non equivale a quella che la segue immediatamente, e nemmeno a quella che la precede.
Un orario è se stesso e basta.
Tenendo buono il paragone con lo spazio, l’ora legale è come se un bel giorno di primavera vi dicessero di scalare la vostra residenza di un posto: ognuno vada nella casa del vicino e così via a catena, giù fino alle porte dell’inverno prossimo.
A proposito di una simile eventualità, mi scappa da mescolare qualche sorriso alla speranza che immediatamente confinante con la villa di Arcore si trovi una misera stamberga abitata da gente modestissima (però sia almeno una unifamiliare contemplata dal nuovo Piano Casa).
Insomma, non saprei ancora cosa aggiungere…l’ora legale è come prendere Rosi Bindi e Naomi Campbell, misurare le loro altezze (metti siano 1 e 60 la Rosi, a dargli del fiato, e 1 e 75 la Naomi), prendere un cm. della Rosi e uno della Naomi, e dire che sono due cm. uguali fra di loro.
Con tutto il rispetto per l’avvenenza della Bindi e per l’acume politico della Campbell (categorie sulle quali non mi sento di sbilanciarmi con giudizi di sorta), per me 10 mm. della Rosi sono diversi da 10 mm. della Naomi.
Sarà per questo dunque che lo scorso 22 ottobre, col ritorno dell’ora solare alle porte, mi ero sentito di schuerzueggiuar poeutando
E invece lunedì mattina, quando la sveglia è suonata illecitamente alle 5 invece delle 6 (che per me doveva essere l’unico orario legalmente riconosciuto), mi sono sentito solo di sussurrare fra me e me, con leggiadro favellar: «…Diu c’ha‘g vegna n’acidènt a l’ora legale, lì e chi l’ha càgada...».