sabato 1 maggio 2010

La gioia sotto sera


Ci sono un paio di pensieri da me “ascoltati” recentemente, che mi hanno regalato attimi di gioia, anche se con la letizia forse avevano effettivamente poco a che fare.

Questo fenomeno mi capita spesso.
Tante cose che procurano gioia alla maggior parte della gente, con puntualità quasi svizzera lasciano invece me alquanto indifferente. Robe che invece passano per lo più inosservate da chiunque, mi causano fitte di felicità non meglio determinabili.

Allo stesso modo, tante cose che fanno ridere la maggior parte della gente, quasi puntualmente a me non fanno molto ridere.
Il cinema è un rivelatore perfetto di questa faccenda.
Una volta ero al cinema, a vedere un film di Woody Allen.
Quella di Woody è una delle comicità che prediligo, perché sa essere alta e bassa nel contempo, riuscendo a coprire tutto lo “spettro umoristico” che va dalla gag fisica alla battuta più penetrante. Woody può provocare sia la “risata grassa”, sia lo “stupore del privilegio” di trovarsi di fronte all’invenzione di un genio umoristico puro.
Quella volta il film in questione era «Misterioso omicidio a Manhattan». Per circa mezz’ora di pellicola, il pubblico si era profuso in risate grasse su scene che invece per me erano più appropriatamente meritevoli di uno stupore privilegiato. Il fatto curioso capitò tuttavia su una gag che probabilmente travalicava entrambi gli estremi della vis comica Alleniana, sfiorando quella dimensione dell’assurdità ironica che affonda le proprie radici nel meglio della tradizione culturale yiddish: un misto di paradossalità “non-sensuale” e candido disincanto dell’anima.
In questa scena, Woody e Diane Keaton, improvvisati detective dilettanti, sono in un ascensore e lui la deve reggere sulle spalle per darle modo di rovistare nel controsoffitto, alla ricerca di non ricordo bene quale oggetto, cruciale nella loro rabberciata indagine. E’ lì che Woody, dopo alcuni lunghi attimi di “reggenza” problematica di quel “dolce” femmineo peso, con voce sotto sforzo se ne esce con questo gioiello: «…Mi sta passando tutta la mia vita davanti agli occhi…nella parte più brutta guido un'auto usata…».
Ero l’unico che rideva in tutta la sala. E più vedevo che nessuno rideva, più io ridevo, constatando con gaudio quale tipo particolarmente speciale di essere stonato io fossi.

Con la gioia per me funziona uguale. Mi danno gioia certi dettagli concettuali inusitati, certe sfumature mentali secondarie, certi pensieri mimetizzati, che magari ad altri suscitano solo lievi note di perplessità.
Come le idee di cui vi parlavo in apertura, appunto.

Le prima riguarda il mondo filosofico di Jacques Derrida, uno dei pensatori moderni che più ha indagato intorno al senso della parola scritta.
Nella fase ormai più matura della sua lunga riflessione filosofica (anni ’80 e ’90), il pensatore francese formulò una specie di profezia a proposito dei destini che sarebbero toccati in sorte alla scrittura, nel confronto con la rivoluzione tecnologica delle comunicazioni che allora si andava innescando (internet, telefonia mobile, and so on…).
Contrariamente a quanto la maggior parte dei “tecnici” si sentiva di poter preconizzare allora (ossia il graduale immiserimento prevedibile nella considerazione di valore della scrittura, a favore di altri canali espressivi quali l’immagine, il filmato, la voce, ecc…), Derrida sosteneva che la cara e vecchia parola scritta avrebbe invece conosciuto una nuova esplosione qualitativa e quantitativa, una sua primavera di bellezza rinnovata, proprio grazie ai nuovi strumenti tecnologici.
E non c’è bisogno di stare a spiegare quanto egli avesse ragione, parlando io proprio dal “pulpito” di un blog, ossia una delle conferme più evidenti attraverso le quali quella previsione si è avverata.
Ad un’analisi superficiale, tanti cosiddetti esperti mass-mediologi avevano forse immaginato che uno strumento come la parola scritta, proprio per la sua “antichissima datazione”, sarebbe stato superato tecnologicamente a sinistra da forme di espressività umana meno legate ad una “ritualità pratica lenta”.
La scrittura comporta aspetti di lentezza comunicativa che in apparenza stridono con la pretesa velocizzante dei nuovi mezzi. Ma il suo segreto sta proprio in quei tempi dilatati che le sono connaturati. La scrittura, con un piede nella fanciullezza dell’umanità e l’altro nella sua l’adolescenza, nasce dalla necessità di domare il pensiero, di fissarlo in punti saldi e governabili.
Di riflesso, solo la lettura, “sua cugina”, offre l’opportunità di un assorbimento intimo e personalizzato delle idee, perché consente tempi di “suzione concettuale” maggiormente commisurati alle esigenze ponderanti del pensiero.
Per Derrida insomma, lo sviluppo di certe idee sarebbe stato impensabile senza la disponibilità di poterle fissare sulla carta con la scrittura.

Per questo internet è stato e continuerà ad essere una deflagrazione iper-proliferante di roba scritta, vero e proprio nuovo regno di quella dicotomia con il «logocentrismo», che secondo Derrida traccia le direttrici primarie di tutta la cultura occidentale.
Sempre per il medesimo ordine di motivi, i telefoni cellulari si sono buffamente tramutati in macchine da scrivere portatili, implodendo anch’essi sotto i colpi di quella ipertrofica brama comunicativa che solo attraverso il contatto con i messaggi sms sembra poter essere placata.

Lo so che ora, ancor più di quella platea woodyalleniana silente intorno al mio ridere isolato, starete pensando: «…Questa roba ti procura gioia?...Ma minchia, sei messo proprio male…».
Ebbene sì, ma questo è niente rispetto alla seconda idea causa di un altro mio attacco di gioia recente, della quale vi volevo riferire, e che è forse ancor più volatile ed inafferrabile nei suoi aspetti gaudiosi.
Me l’ha regalata Carlo Fruttero, ospite della trasmissione di Fabio Fazio non tanti giorni fa, dicendo che uno degli obiettivi più nobilitanti da lui raggiunti nel corso della sua lunga e straordinaria vita di uomo di cultura, è stato essersi liberato dalle opinioni.

Tendere alla libertà da qualsivoglia opinione! Non vi sembra un programma di vita meraviglioso?



4 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

è il massimo dell'illuminazione zen non avere più opinioni, non avere bisogno di "dire la propria" è bellissimo, è il mio sogno più alto :-) sono ancora lontana da questo, infatti ancora non ho chiuso il blog, ancora sono qui a commentare... ma forse commentare te è solo un gesto di affetto alla mia mezza chimera (bacio con schiocco web)

Gillipixel ha detto...

Io credo però che non ci sia contraddizione, cara Farly, fra tenere un blog e non avere opinioni...basta tendere al fraseggio sul nulla e l'obiettivo è quasi raggiunto :-)
Anche io ad oni modo sono ancora lontano dall'ambito obiettivo zen di cui parli, è molto alto, in effetti...
Lo dice anche blogspot: whers, dove sarà mai? :-)
Bacini zenza opinioni :-)

Rosa ha detto...

La mia opinione è che non è una cosa necessariamente buona non avere opinioni.
Riformulo: la mia opinione è che è un'ottima cosa avere opinioni, e una pessima cosa essere attaccati alle proprie opinioni e incapaci di cambiarle.
Di questo sono proprio sicura, non riuscirete a farmi cambiare idea.
(psonso, dice blogspot. Devo prenderlo come un insulto?)

Gillipixel ha detto...

In realtà, cara Rose, forse non avere opinioni può avere uesto fascino dell'illusione di un distacco totale dalle cose mondane...poi è chiaro che se uno vive, ne deve avere per forza, perchè è chiamato volente o nolente a delle scelte, che richiedono a loro volta giudizi...
In buona siostaza, nun se ne esce :-)
Le opinioni vanno avute :-)
Che non siano delle boe eterne, su questo concordo...
Non fare caso a blogspot...figurati che a me dice dambarog :-)
Bacini inopinati :-)