domenica 17 ottobre 2010

"Dù iù scpich inglish?" - "No, dènghiu, ài èm astemio"


Ancora due spunti dispersi fra il parlare di parole, ancora considerazioni brade sulla bellezza del linguaggio e sul rispetto ad essa dovuto, con alcune scorribande lungo le stranezze che si innescano fra le lingue quando inevitabilmente fra di loro s’innestano.

Le lingue sono tante, milioni di milioni, come le stelle della canzone e i salami di Negroni. Sono tante e diverse, diversissime talvolta, ma non è capitato quasi mai nella storia dell’uomo che ciascuna vivesse la propria esistenza di lingua nel completo isolamento rispetto a quelle degli altri popoli.

Perdonate la mia smodata stupidità, ma la tentazione di dire una vaccata a questo punto è talmente ghiotta che non riesco ad esimermi: i popoli hanno sempre viaggiato, facendo così in modo di darsi continuamente la lingua in bocca a vicenda.
Il conquistatore per capire il conquistato ed invaderlo meglio; l’immigrato per annusare che aria tirava nella terra in cui approdava, e farsi fregare un po’ meno; il “turisteggiante” viaggiatore delle varie epoche, per ingraziarsi meglio le bellezze locali, evitare il rimpatrio su velivoli low-cost con elica a caricamento elastico, o vedere se magari ci fosse il modo di non finire in una bettola dove ti randellano, scopo arruolamento coatto su baleniera o equipollente bagnarola battente il vessillo del “Jolly Roger”; e così via, dandoci giù di scambi linguistici.

Le lingue dunque, per loro natura conseguente diretta della natura umana, non possono permettersi di procedere per compartimenti stagni. Sono fluide, si mischiano, si contaminano, si frizionano, si sfregano l’una contro l’altra.

E proprio qui casca il Gillipixel linguistico.

Nei punti in cui le lingue si toccano, possono accadere tante cose: buffe, stupefacenti, piacevoli o irritanti. Come sempre, quando si ha a che fare con le lingue, le cose “accadono” e le preferenze del singolo ci possono fare poco. Le dinamiche sono dettate dalla “legge dei parlanti” e ogni lingua si modifica e si amalgama su impulso di uno stillicidio ingovernabile di modi di dire che lentamente si insinuano dapprima su iniziativa di pochi, poi si diffondono, prendono piede sulla bocca di molti (anche questa immagine del piede in bocca, non è male quanto ad ambivalenza “erotonzola” indotta dalla mia supidità…), finendo per diventare regola fissa incorporata nei modi di dire comunemente accettati.

Quando due lingue vengono in contatto, succede che s’inneschino giochi di forza tesi all’assoluto rifiuto della contaminazione da un lato, oppure all’invadenza nel verso opposto.
Le lingue possono essere o troppo passive, per cui s’imbevono senza opporre resistenza di vocaboli provenienti da altri idiomi, oppure sono chiuse ermeticamente, non lasciano spiraglio a nessun refolo di accoglienza nei confronti del “dire alieno”.

Sarebbe divertente fare una ricerca riguardante i casi in cui nel corso della storia le due dinamiche si sono concretizzate.
L’episodio contingente che mi ha dato lo spunto per scrivere il presente articolo deriva dalla mia lettura in corso dei “Promessi sposi”. Ad un certo momento del racconto, non ricordo bene dove, ma mi pare nell’affrontare le vicende della peste milanese seicentesca, Manzoni cita le fonti e gli autori ai quali si rifà per la sua ricostruzione storica, e un tale Jean Bodin si tramuta para-gastronomicamente in un casereccio “il Bodino”, mentre un severo e teutonico Johannes Schenck diventa “sturm-truppen-escamente” “lo Schenchio”.

Ovviamente è meno simpatico il caso delle dittature, che nella loro tragicità, sanno dare adito in questo senso anche a risvolti parecchio grotteschi, e il fascismo non fu di certo esente dal fenomeno, anzi, si distinse per una delle più patetiche campagne di protezionismo del linguaggio.

Un po’ traendoli da miei ricordi e un po’ da citazioni trovate in rete, so fare qui solo alcuni esempi, ma sono del tutto significativi. Primo su tutti l’italianizzazione forzata del nome della cittadina di Versailles: storicamente legata al famoso trattato successivo alla Prima Guerra Mondiale, che prevedeva sanzioni severissime per la Germania ed i paesi sconfitti, venne trombonescamente rivisitata dal regime mussoliniano come l’«iniqua Versaglia».
Sulla scia di questa pretesa autoreferenzialità spasmodica, il cachet si tramutò malinconicamente in “cialdino”, la chiave inglese in “chiave morsa” ed il cognac perse buona parte della sua gradazione scadendo in “arzente”.

Questi effetti paradossali si verificano quando alle rispettive dinamiche delle due lingue che entrano in collisione non si lascia agio di esprimersi con naturalezza. Non c’è una regola fissa, e non avrebbe nemmeno senso: di volta in volta sono l’eleganza e l’efficacia del termine, la sua capacità di afferrare meglio il significato voluto, che fanno sì che prevalga la parola straniero oppure che questa non trovi permeabilità.

Ci sono casi ridicoli anche nel senso opposto, infatti. Più che ridicoli, fastidiosi direi, almeno per me. E stavolta non bisogna andare tanto indietro per ritrovarli. Parlo di quel vezzo tutto contemporaneo di trasferire di sana pianta parole straniere (per lo più inglesi) nel nostro bell’italiano, al solo scopo di conferire un’aura di supponente superiorità verbale al discorso. Succede spesso con l’«economichese»: ad esempio, mi causano intensa irritazione cutanea nelle aree sub-scrotali, termini come “know-how” (“conoscenze” non bastava?), “skills” (“abilità”, “competenze”, fanno così schifo?), “rumors” (“voci di corridoio”: cosa c’è di più colorito ed espressivo?).
Guardate, amici viandanti per pensieri, vi avviso: capitasse un giorno che uno di voi mi incontrasse di persona, che non gli venga in mente di pronunciare di fronte a me quella vaccata del termine “know-how” in contesto italianizzante, perché uno sputazzo nel bel mezzo dell’occhio sinistro non glielo leverebbe nessuno.

Le lingue ad ogni modo si sono sempre fuse fra loro, e spesso è solo il tempo che dice la parola definitiva sulla bontà di quello che ne è scaturito, oppure rivela se la strada imboccata è un vicolo cieco bell’e buono.
Ricordo sempre con piacere una lezione d’italiano al liceo, durante la quale il nostro caro professore ci elencò una serie di vocaboli inglesi, all’apparenza così insospettabilmente anglosassoni che più non si sarebbe potuto, ma grattando sotto il cui manto etimologico si rivelavano invece nelle loro evidenti radici latine: “right” poggia i suoi piedi su “rectus”, mentre “left” affonda dentro “levus”; “ship” invece fenderebbe la sua chiglia in “schifus” (dovrebbe essere un’antica imbarcazione, anche se non ricordo bene la grafia esatta…) e “Christmass” non è altro che la malcelata forma di “Cristus Missus”, “Cristo inviato nel mondo”.

Insomma cari amici viandanti per pensieri, come vedete, fra le lingue, funziona un po’ come fra le persone: i fattori che contano di più sono sempre l’ascolto reciproco e la pazienza nell’approfondire le rispettive conoscenze.
Solo così è garantita una felice e profonda compenetrazione vicendevole.



6 commenti:

maria rosaria ha detto...

bello, bello!! profondo come sempre e appassionato. mi ha fatto tornare in mente quegli italiani emigrati in america che quando tornano mescolando un improbabile inglese a dialetti del centro italia, dicono cose tipo: apparc glie car (parcheggio la macchina); è pront glie lanch (è pronto il pranzo), glie prim flor (il primo piano) e via discorrendo ;)
un bacio

Gillipixel ha detto...

@->Maria Rosaria: grazie Em Rose :-) molto belli i tuoi esempi anglo-dialettali :-) Le fusioni linguistiche riservano veramente sorprese molto divertenti...sarebbe bello fare una specie di raccolta dei prodotti più sopraffini :-) dietro non ci sono solo esiti di carattere sonoro-sillabico, ma spesso si possono arguire anche ragionamenti sottostanti paradossali e stranissimi :-)

Sempre onorato di averti fra i miei lettori :-)
Bacini multiespressivi :-)

Rachel Barnacle ha detto...

Una cosa buffa sulla chiave inglese, è che gli inglesi (solitamente più che entusiasti nel rimarcare una qualsivoglia gloria nazionalista) sembrano misconoscere la nazionalità della chiave inglese chiamandola con svariati nomi (a seconda del modello): si va dalla "monkey wrench" (il nome più usato), fino alla "spanish wrench", e per i più geograficamente puntigliosi "basque wrench".
Pare insomma che - più che chiave inglese - si tratti di una chiave cosmopolita.

P.S. Ho cercato in tutti i modi di infilare un "know-how" nel commento, ma ahimé, non c'è stato verso.
Sarà per un'altra volta.

Gillipixel ha detto...

@->Rachel: eheheh, che buffa sta cosa della chiave, RB, non la sapevo proprio...alla fine allora nessuno se la vuole pigliare la sua paternità e se la rimpallano di nazione in nazione...un po' come il mitico tormentone anni '70: "prinz, tua, neutro" :-)

Lo so che maltrattare un po' i barbapapà è la tua passione...ma stavolta ti è mancato il "know-how" :-)

Bacini austroungarici :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

come sai ho una certa allergia ai diminutivi, ma esistono cose per me ancor più allergizzanti, lo scoprii malamente in sede lavorativa, durante una presentazione di un giovane aziendalista che ci illustrava alcuni sui "strepitosi" risultati ottenuti calcolando medie e deviazioni standard di un po' di numeri, ma tutta roba con nomi inglesi. mi fermarano mentre schiumando e coprendomi di bolle volevo strangolarlo.

Gillipixel ha detto...

@->Farly: ehehhee, mi sembra di vederti, Farly :-) I mistificatori della realtà tramite le parole, già sono odiosi, ma quelli che s'inventano gerghi esoterici per dire cose banali, solo per il gusto di creare la cerchia degli eletti iniziati snobminchioni, beh, quelli sono da prendere a legnate...metaforiche, s'intende :-)
Bacini in italiano puro :-)