mercoledì 29 dicembre 2010

La topa di Munchausen


Svariate volte mi sono divertito a punzecchiare l’atmosfera consumistica in cui praticamente tutti siamo calati fino al collo.

Non è che non mi renda conto che si tratta di un’operazione piuttosto facile, tanti e tali sono i difettosi spiragli attraverso i quali la mercificazione della vita moderna offre il proprio fianco miseramente scoperto.
E non è che non comprenda come queste critiche paghino un notevole tributo metaforico alla celeberrima immagine del barone di Munchausen, che pretendeva di cavarsi d’impaccio dalla risucchiante palude in cui s’era cacciato, issandosi con una sua propria mano appigliata al proprio stesso codino.

Capisco benissimo tutte queste cose, ma il fatto è che prendere un po’ per il culo il consumismo (e non ho detto “fondelli”…) è divertente. Soprattutto se lo si fa depurando la nostra visione da quel filo di ipocrisia quasi inevitabile in simili considerazioni.
Dentro al sistema cosiddetto consumistico ci sono nato e cresciuto, mi ha regalato anche tante belle cose (perché non ammetterlo?), ha fatto parte, nel bene e nel male, della mia vita, è stato persino scenario di fondo dei miei affetti, in qualche modo ha influenzato, volente io o nolente, i miei percorsi, le mie scelte.

Una sana presa per il culo del consumismo ha dunque per me più lo scopo di mettere in guardia dai suoi eccessi, di tenere sul chi vive riguardo ai suoi estremi. Incazzarsi per le assurdità consumistiche è doveroso, se questo può servire da viatico verso un atteggiamento più consapevole del valore delle cose e del loro utilizzo.

Le “cose” hanno una loro bellezza: essa merita il nostro affetto e la nostra salvaguardia. In questo senso dovremmo vedere le “cose” più come delle compagne di viaggio nella nostra avventura materiale in questo mondaccio, piuttosto che non alla stregua di entità votate al mero consumo (ci tengo a sottolineare l’uso del “piuttosto che” in senso “esclusivo”, com’è corretto in italiano: «…Chi usa il “piuttosto che” in senso “alternativo”, “opzionale”, avvelena anche te: digli di smettere…»).

Fatta questa doverosa premessa “sociologico-papponizzante” (che per altro, lascia un po’ il tempo che trova: nuvoloso, tendente a piovere mer…meringhe…), oggi volevo raccontare come talvolta mi succeda di cadere in pieno, e senza saper opporre difesa alcuna, nella rete consumistica, abboccando all’amo mercificatore come un vero e proprio pescegatto blandito a furia di pastura pubblicitaria.

Insomma, per farla breve, mi son comprato una topa.

Ecco, no, ferma…andiamoci piano con i frettolosi fraintendimenti dettati da erronea interpretazione dialettale. Col termine “topa”, nel dialetto di Gillipixiland, non s’intende solamente la trilatera matassetta pilifera, oggetto oscuro (ma non è sempre detto: dipende dalla “natural livrea” della padroncina…) del desiderio maschile. O meglio, si può intendere pure quella.
In gillipixilandese stretto, con “topa” viene indicato anche il tipico copricapo sovietizzante in pelo, il russevole coperchio pelliccioso, il colbacco insomma. Era “lui” il personaggio “misterioso” che mi ha aiutato nel farvi gli auguri di Natale, dalle rive del fiume (e Antonella aveva simpaticamente ipotizzato giusto…).

Non a caso in apertura di articoletto ho parlato di consumismo. Questo mio acquisto non è stato dettato altro che da un puro sfizio consumistico. La necessità di un colbacco dalle mie parti risulta infatti pari a quella percepita da una famiglia di esquimesi per un impianto dell’aria condizionata da installare nel loro igloo.

Fatto sta che di tanto in tanto, se vivi in questa società, un tributo al consumismo più folle, lo devi pur pagare. Il consumismo possiede questa inusitata forza ammaliante, in virtù della quale, ad un certo punto, senti di non poter più vivere fino a quando l’oggetto campione dell’inutilità mondiale non sarà tuo.

Qual era la cosa più eccessivamente inutile di cui sentivo l’estrema necessità a questo punto della mia vita, perché essa potesse proseguire con regolarità?
Presto detto: una “topa” (sempre in accezione gillipixilandese; nell’altra accezione cespugliosa e triangolare, mi sarebbe piuttosto utile, ma questo è un altro discorso).

Però se di gesto consumistico doveva trattarsi, meritava che lo fosse fino in fondo. E spiegandovi ora le modalità del mio toccare il fondo consumistico, nel prosieguo di narrazione, vengo a tranquillizzare anche tutti gli amici degli animali.
Perché la mia topa è sì di pelliccia realmente appartenuta ad un animale, ma allo stesso tempo, non è di pelliccia vera, e soprattutto non è stata portata via a nessun animale.

Ma com’è possibile un simile prodigio, vi domanderete?

Dovete sapere che questo colbacco, dietro mio interessamento personale riguardo alla questione (non so se serve sottolinearlo, ma ad ogni modo vi avverto che da questa frase in poi sparerò fregnacce grosse come dei condomini…), è in puro pelo di «Er Zebù».

Er Zebù è una simpatica bestiola che vive nelle campagne romane. È molto difficile e raro avvistarlo, anzi, praticamente è impossibile, perché ha un carattere molto schivo, anche a causa di una sua peculiarità naturale: Er Zebù è infatti privo di pelliccia e si vergogna ad andare in giro nudo.

Cos’ha dunque pensato questa illustre ditta di abbigliamento (non faccio nome per evitare pubblicità e per questo immagino la ditta mi ringrazierà tantissimo) dalla quale mi sono fornito della mia topa?

Alcuni suoi incaricati si sono recati in ambasciata da Er Zebù, convincendolo, non senza difficoltà nel superare la sua proverbiale ritrosia, ad indossare delle pellicce confezionate appositamente per lui. Queste pellicce sono rigorosamente ed interamente in poliestere ed acrilico. Er Zebù si è detto subito entusiasta dell’idea («…Grunf, grunf…» ha dichiarato), passando subito parola ai suoi simili, “Li Zebù” (già, è strano, ma Er Zebù al plurale diventa proprio Li Zebù).

Li Zebù, sfoggiando con eccitazione la loro nuova pelliccia, sono diventati anche meno sfuggenti di carattere. Non che ora si lascino avvicinare dall’uomo più di prima, ma almeno si incontrano in gruppetti nelle loro tane, per fare una briscola o bere un goccio in compagnia, grunfeggiando del più e del meno. La pelliccia insomma ha migliorato la vita sociale de Li Zebù.

Alla fine di ogni stagione fredda, Li Zebù riconsegnano poi volontariamente le pellicce agli addetti della ditta di abbigliamento. Questa restituzione pilifera primaverile è divenuta quasi un rito festoso e naturale per Li Zebù, un momento che segna i passaggi stagionali della loro lieta vita di bestiole ritrose, tanto che quel momento è stato addirittura battezzato con un suo specifico nome: Li Saldi.

Dalle pellicce indossate e poi rese da Li Zebù, si ricavano successivamente capi di vestiario per gli umani, come appunto la mia topa. Per tutta la stagione calda, Li Zebù non si lagnano adesso più di tanto dell’assenza di pelame corporale, anzi, ora scorrazzano lieti nel proprio habitat naturale comprendendo meglio quanto sia pratica la nudità, che ritorna molto comoda quando dietro un cespuglio o alle fonti di un ruscelletto, incontrano leggiadri esemplari de Le Zebù, le graziose femmine della loro specie.
Tanto poi sanno che ad ogni nuovo autunno, potranno ritirare la pelliccia invernale nuova, sempre per interessamento della medesima ditta, ed eventualmente anche piccole pelliccette su misura per i nuovi cuccioletti de Li Zebù nati nel frattempo.

Ecco allora spiegato l’arcano, riguardo alla pelliccia del mio colbacco: è realmente appartenuta ad un animale, Er Zebù; non è vera, ma sintetica; e soprattutto non è assolutamente stata portata via, bensì donata di buon grado da Er Zebù in persona, in occasione de Li Saldi.

Ora ditemi voi, cari amici viandanti per pensieri, se potevo compiere un gesto consumistico più nobile di questo, talmente privo d'effetto per gli umani da scatenare un’utilità immaginaria per una bestiolina inesistente...

E’ bello, sapete, andarsene in giro per le strade della città, sfoggiando “totòepeppinescamente” il proprio colbacco di Er Zebù, con la stessa trasognata decontestualità ostentata dai due comici partenopei al loro approdo nella stazione centrale di Milano.

E poi questa cara topa è anche il miglior promemoria possibile per tenere a mente l’essenza stessa del sistema consumistico: arrivato a casa, me l’afferro per il suo dietro, la traggo in alto velocemente e ogni volta mi accorgo che nel mondo dei consumi, per ora, ci rimango sempre ben immerso dentro.

*******

(…Nella foto di apertura, potete ammirarmi mentre sfoggio la mia topa di Er Zebù, sotto lo sguardo sconsolato di un James Dean che rimpiange i bei tempi andati in cui la gente aveva ancora il pudore di bruciarsi solamente la gioventù…).



6 commenti:

Yossarian ha detto...

Capisco benissimo tutte queste cose, ma il fatto è che prendere un po’ per il culo il consumismo (e non ho detto “fondelli”…) è divertente.

Fai bene ed e' divertente: nel mio caso mi sarebbe comunque piaciuto poter essere consumista visto che non c'ho il becco di un quattrino.

Magari avessi potuto spendere e spandere...

In ogni caso, ti dico come la vedo io: a parte l'ipocrisia sulla quale sono d'accordo con te e il post, credo fondamentalmente che se uno ha i quattrini e' libero di spenderli come gli pare, consumismo o non consumismo.

Ben altra cosa e' se uno non ha quattrini e s'indebita per seguire la vulgata consumista natalizia.

In quel caso e' un pirla.

Buon Anno Gilli. :-)

Che fai all'ultimo?

Gillipixel ha detto...

@->Yossarian: caro Yoss, come al solito, debbo convenire con la tua disamina, spietatamente realista e precisa :-)

Rimane un punto saldo il fatto di spendere entro le proprie possibilità...chi non si attiene a questa lapalissiana norma del buonsenso, come giustamente ricordavi, viene denominato dagli economisti e dagli studiosi dei fenomeni sociali, con un termine tecnico ben preciso: pirla :-)

Per l'ultimo dell'anno esco per una cenetta con gli amici...tanto per non perdere la presa sulla forchetta, che in questi giorni si è mangiato poco :-)

Buon Anno a te, Yoss...a auguri estesi alla cara Rachel, nonchè a sua pellicitudine Tama :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

allora secondo me chiamare il copricapo la topa non va, bisognerebbe chiamarlo il topo, ma mi rendo conto perderebbe di fascino... solo che l'andar in giro con una topa in testa potrebbe condurre a facili battute da caserema o terza media... non so ecco magari non le dico che questo è ancora un blog per bene va..

baci autocensurati

Gillipixel ha detto...

@->Farly: hai ragione, Farly, è uno scandalo: il clima di questo blog sta diventando veramente da caserma :-) ma i dettami dialettali non si possono contraddire, se topa è detta, non fu certo per cagione mia :-)

Ad ogni modo, credo sia molto bello poter prendere spunto anche dal più insignificante oggetto quotidiano e fantasticarci sopra una storia...fermo restando da una parte una sana dose di realismo che ci deve guidare nelle faccende concrete, questa pratica di effettuare improvvise incursioni nell'assurdo e nel surreale, è ad un tempo piacevole e psicoterapica :-)

La consiglio vivamente a tutti :-)

Bacini lavati col sapone manganone :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

ovvio che hai ragione! la storia di er zerbù è fantastica :-D e poi ce n'erano due qui ai giardini in piazza, vedessi come si pavoneggiavano con le pellicce! mi hanno anche confessato che ora che sono assurti agli onori del web grazie a te, si sentono più inclini alla socializzazione con gli umani, dicono anche che quando passi di qui vorrebbero stringerti la mano e ringraziarti personalmente...
baci surreali

Gillipixel ha detto...

@->Farly: ahahahahha :-) Lieto di aver svolto questo ruolo sociale per Li cari Zebù :-) Quando ricapiterò a Roma, li saluterò molto volentieri :-) Intanto, per il momento, fatti tu portavoce per me, cara Farly :-)

Bacini picchiatelli :-)