martedì 21 giugno 2011

Is the best in the past?


«…Antichissima è la leggenda dell’età dell’oro. Non conosciamo esattamente l’origine sociologica del culto del passato; che può avere le sue radici nella solidarietà familiare e tribale o nello sforzo di gruppi privilegiati di fondare i loro privilegi sull’origine. Comunque, l’idea che il migliore debba essere anche il più antico è ancor oggi così forte che storici dell’arte e archeologi non arretrano neppure davanti alla falsificazione storica, pur di riuscire a presentare come originario lo stile che preferiscono…».

Storia sociale dell’arte” (Vol. I – Cap. I)
Arnold Hauser – 1955

Amici, se ho voluto iniziare l’odierno articoletto citando le parole di un tale che sapeva scrivere sul serio, l’ho fatto per rendervi partecipi della constatazione di come le vie dell’andarperpensieri siano veramente infinite.

Per dirla con una metafora “antropo-suina”, i pensieri sono come il maiale, non si butta via niente.

La loro bellezza principale risiede nel poterli lasciar decantare comodi e adagiati in qualche anfratto della nostra mente, dietro una piega della nostra memoria, sotto il tappeto del nostro animo. Possono rimanere latenti per mesi, per anni, come un minuscolo chicco occultato in un terreno che momentaneamente lo custodisce solamente. Poi all’improvviso, è sufficiente un inatteso goccio d’acqua concettuale ad irrorare quei chicchi fra di loro affini, ed il pensiero recondito germoglia con rigoglio, portandosi dietro un’infiorescenza di inediti risvolti di senso, i quali si arricchiscono a vicenda nella risonanza culturale fra di essi innescata.

Non di rado vengo bonariamente rimproverato di essere un discreto passatista nonché moderato vagheggiatore dell’«età dell’oro». Credo che questo tratto faccia parte del “corredo spirituale” di ogni umano. Il passato rappresenta il noto, l’assodato, e come tale rassicura; dietro al futuro si cela l’ignoto, affascina ma intimorisce allo stesso tempo. Il passato può essere inteso persino come fastidio “passato in giudicato”, e forse per questo motivo spesso ricordiamo, se non con piacere, perlomeno con neutrale distacco, anche i momenti difficili trascorsi. Ma adagiarsi eccessivamente sul passato è un errore, paralizza, conduce ad una involuzione, atrofizza la vita. E forse proprio per un passatista, una volta riuscito a cacciare fuori il capo dalla sua buca nella sabbia dei bei tempi andati, la comprensione di tutte le magagne associate a quella propensione risulta più agevole, perché le può osservare con maggiore evidenza sulla propria pellaccia esistenziale.

Esistono tuttavia fattori costitutivi dell’«essere umani» che sembrano profilarsi come archetipi senza tempo, validi dalle lontane ere in cui l’uomo ha potuto cominciare a chiamarsi tale, e che rimarranno attivi sino a quando le nostre caratteristiche fondamentali non subiranno una metamorfosi così radicale da non poterci più definire rappresentanti degni della specie homo sapiens. Queste caratteristiche umane “fuori dal tempo” risolvono di colpo qualsiasi controversia fra passatisti e “futuristi”, annullando in pratica i motivi del contendere sul tema.

E qui finalmente cerco di tirare le somme di un discorso che sta assumendo la dispersività di una manciata di riso scagliata in un tornado.

Dovete sapere che il brano di Arnold Hauser riportato in apertura l’avrò letto circa 15 anni fa e mi è capitato di andarlo a rispulciare nei giorni scorsi. E’ stato a quel punto che il suo portato concettuale ha finito per andare a lievitare assieme a due altre suggestioni culturali nel frattempo da me recentemente assaporate.

Jacques Derrida è stato uno dei filosofi più influenti della seconda metà del ‘900. Quest’inverno mi sono visto un interessante dvd a lui dedicato. Ora, per esigenza di sintesi e per vincoli d’ignoranza (la mia…), semplificherò un po’ i concetti alla boia cane, sperando di non dire eccessive vaccate.

Com’è successo per diversi altri pensatori moderni (Heidegger e Wittgenstein in primis), anche Derrida ha giocato gran parte della sua partita filosofica in ambito linguistico. Non sto nemmeno qui a citarvi la straconosciuta frase di Heidegger («..il linguaggio è la casa dell’essere…»), dato che non riuscirei ad aprire in tempo l’ombrello anti-pomodorate, ma sta di fatto che la cosa più bella che mi è rimasta dall’aver visionato questo dvd sul pensatore francese, pur avendovela già raccontata in un’altra occasione, la ripeto perché nel presente discorso assume risvolti diversi.

Si tratta di una sorta di previsione controcorrente espressa da Derrida alla vigilia della grande rivoluzione telematica di internet e delle altre moderne ed affini diavolerie atte alla “capillarizzazione” del comunicare (telefono cellulare in testa alla lista…). Assumendo una posizione spiazzante, Derrida pronosticò, con l’avvento di questa iper-accelerazione ed iper-diffusione delle opportunità di trasmettere informazioni, un parallelo aumento dell’importanza attribuita alla parola scritta, contrariamente all’opinione più diffusa che invece prevedeva per la scrittura un declino causato dalla rapidità delle ultimissime super-specializzate tecnologie. Blog, Facebook e messaggi sms dovrebbero bastare ad intenderci di cosa stiamo parlando.

L’esprimersi per iscritto sembra dunque possedere tutti i crismi per poter essere enumerato nella lista di quegli “archetipi senza tempo” di cui parlavo prima, ma l’incrocio concettuale più pregevole ve lo devo ancor riferire. Ci sono inciampato dentro leggendo l’introduzione di «Capire l’arte contemporanea», un buon libro di Angela Vettese che tratta appunto delle ultimissime tendenze estetiche.

La professoressa Vettese ad un certo punto si domanda quale ruolo e quale spazio (una volta esaurita la “stagione d’oro” dell’arte moderna fra tardo ‘800 e prima metà del ‘900) possano ancora occupare le arti visive ai giorni nostri, quando esistono mezzi espressivi (cinema, internet, tv e chissà cos’altro in un futuro assai prossimo) molto più in sintonia con le esigenze di “azzeramento dei tempi morti” apparentemente prioritarie in una visione “ultra-contemporanea” del mondo.

«…Data la difficoltà di definirne il dominio di pertinenza, di comprenderne i criteri di selezione, di renderla veramente popolare, quale funzione resta all’arte visiva?
Il suo vantaggio competitivo rispetto ad altre discipline creative risiede soprattutto nel fatto che ha una committenza indiretta, cioè diversamente dalla pubblicità o dalla moda, non ha vincoli appariscenti al momento della concezione dell’opera.
Nella maggioranza dei casi gli artisti non sono nemmeno interessati ad avere una vasta notorietà […].
Le esigenze del consenso allargato li porterebbero infatti ad una perdita di libertà di ideazione e di velocità di esecuzione che sono ormai le sole armi a disposizione degli artisti: è grazie a queste caratteristiche che l’arte visiva è una delle espressioni più rapide del pensiero, cioè una delle attività che con maggior tempestività coglie lo spirito del tempo…».

Capire l’arte contemporanea
Angela Vettese - 2006

Sorpresa delle sorprese, dunque. Proprio nel pieno dell’epoca con a disposizione gli strumenti per comunicare più strabilianti e più dinamici mai concepiti dall’uomo, cosa non mi si va a rivalutare come forma di espressione assolutamente all’avanguardia? Ma sì, proprio lui: il caro e vecchio vizio umano di “imbrattare coi segni”, siano essi quelli totalmente codificati della scrittura, siano quelli a codice più aperto proprio dell’espressività artistica.
Antica come l’uomo, questa sua magica prerogativa non hai mai perso la propria modernità costante e sempre viva attraverso tutti i secoli percorsi, ed oggi si permette pure il lusso di sfidare le “corazzate comunicative” più agguerrite messe in campo dalla tecnologia più fantasmagorica.

Per concludere insomma questo articoletto quanto mai tribolato e contorto, credo di aver capito che non è poi così importante domandarmi se stare nel partito degli “etàdelloristi”, oppure in quello dei “devoti alle ragioni del futuro”.
Molto meglio mi sembra stare dalla parte degli “archetipi senza tempo”.


3 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

sai che mi piace proprio l'idea degli archetipi senza tempo... ecco mi viene un commento da terza media, ma solo se hai letto galapagos di vonnegut posso farlo... ergo rimando :-)

baci atemporali

Gillipixel ha detto...

@->Farly: allora vorrà dire che mi dovrò procurare Galapagos, Farly :-) per intanto però sono contento che ti sia piaciuta la mia suggestione archetipica perenne :-)

Blogspot dice "meniello" :-) sembra quasi un personaggio dell'orlando furioso :-)

Bacini bradamanti :-)

Yossarian ha detto...

Sara' stata una immagine a caso Gilli: io sono un grandissimo fan dei Ramones da quando avevo 14 anni e non mi risulta che siano nazisti. Anzi.