martedì 4 ottobre 2011

Gillipix il pulcioso retro-profetizzato


Cari amici viandanti per pensieri, oggi vi propino un articoletto per lo più “parassitario”. Nel senso che la parte del mio intervento sarà minimale, affidandomi invece quasi per intero alle parole di un tale che la sapeva molto più lunga di me.

Eccole:

«…So che dovrei parlare dei miei scritti, libri, articoli e così via, ma purtroppo io dimentico ciò che ho scritto praticamente appena ho terminato. Probabilmente c’è in me qualcosa che non va. Credo però che questo fenomeno abbia un significato: io, cioè, non ho la sensazione di scrivere personalmente i miei libri. Sento che i miei libri si scrivono attraverso di me, e una volta che mi hanno attraversato mi sento vuoto e non rimane nulla.
Come forse ricorderete, ho scritto che i miti diventano pensiero nell’uomo a sua insaputa. Ciò è stato molto discusso, ed anzi criticato dai miei colleghi di lingua inglese. Essi ritengono che da un punto di vista empirico, la mia sia un’affermazione completamente priva di senso. Per me invece traduce un’esperienza vissuta, poiché descrive esattamente il modo in cui io percepisco il rapporto con il mio lavoro. E cioè: il mio lavoro si fa pensiero in me a mia insaputa.
Non ho mai avuto, e non ho tuttora, la percezione della mia identità personale. Vedo me stesso come il luogo in cui qualcosa accade, ma non c’è nessun “Io”, ne alcun “me”. Ognuno di noi è una sorta di crocicchio ove le cose accadono. Il crocicchio è assolutamente passivo: qualcosa vi accade. Altre cose, egualmente importanti, accadono altrove. Non c’è scelta è questione di puro caso.
Non pretendo affatto di essere autorizzato, dato che la penso così, a concludere che tutta l’umanità la pensa allo stesso modo. Ma sono convinto
Che, per ogni studioso o scrittore, la particolare maniera in cui lui, o lei, pensano e scrivono apra una nuova prospettiva sul genere umano. E il fatto che io personalmente ho questa idiosincrasia mi mette forse in grado di indicare agli altri qualcosa di valido, mentre il modo in cui pensano i miei colleghi apre altre prospettive, tutte egualmente valide…».

Mito e significato
Claude Levi-Strauss – 1978

Sono contento di accogliere queste parole fra le mie, non solo perché appena le ho lette mi sono quasi cappottato nel letto dalla “gioia narrativa” (fortuna che sono un tipo prudente ed affronto certi autori soltanto assumendo una preventiva posizione di sicurezza, rigorosamente “appiattellato” su un materasso brevettato per i pigri professionali…). Non solo per questo fatto insomma, ma anche perché queste parole medesime mi sono sbalorditivamente suonate come una mini-profezia a ritroso.

Quando mi misi a scrivere questo blog, se avessi voluto stilarne un piccolo manifesto introduttivo, avrei copiato pari pari queste frasi, senza cambiare una virgola. Non perché io ardisca in qualche modo paragonarmi alla grandezza di uno studioso del calibro di Claude Levi-Strauss. Il cielo ce ne scampi, la differenza che separa la sua maestria dal mio scribacchiare, è equiparabile a quella che passa fra la maestosa possanza eolica di un maestrale ed i flati strombettanti emessi da un moscerino afflitto da raucedine intestinale.

Non è per questo dunque che dico “mie” queste parole, ma piuttosto per un’affinità spirituale, che pur prescinde dagli esiti del mio scrivere. Anche io mi sento nello stato d’animo del grande antropologo francese, quando scribacchio, e non importa se ciò che produco vale un milionesimo del suo, non è questo il punto.

Da oggi ho un nuovo beniamino culturale: Claude Levi-Strauss. Ne avevo già sentito parlare in svariate sedi, ma ho incrociato questo suo piccolo libricino soltanto alcuni giorni fa e mi sta letteralmente appassionando. Conto di approfondirne la conoscenza in futuro e questa è una minaccia in piena regola.

Spulciando in rete, ho già letto che le sue tesi per certi versi sono ritenute ormai superate dai più recenti sviluppi dell’antropologia e bla bla, e bla bla. Prendendone atto, rimango tuttavia fermo nel mio intento di saperne di più sull’opera di questo studioso, chiosando tali critiche con una sentenza che si ode spesso riecheggiare nei più severi ambienti accademici: «…e “chi se ne fotte” ce lo vogliamo mettere?...».

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