martedì 31 maggio 2011

Mnemo-appigli all’odor di Scandinavia


Sissel Tolaas.
Da oggi, l’affascinante signora titolare di questo nome dalle sonorità smaccatamente scandive, diventa uno dei miei beniamini cultural-scientifich-esistenziali. Sissel è una delle più esperte studiose al mondo di odori. Lavora per l’industria profumiera, ma studia odori ed essenze anche da un punto di vista antropologico, culturale, ed in ordine alle loro valenze, implicazioni e significati sociali, approfondendo fra l’altro uno degli oggetti della grande rimozione della modernità (sia in senso letterale, sia soprattutto nelle sue implicazioni psicologiche…), ossia gli odori dei corpi di uomini e donne.

Da sempre sono affascinato dall’universo degli odori e reputo l’olfatto, nella sua apparente rozzezza, il più misterioso e fatato dei sensi, quello in grado di suscitare “gamme di impressioni umane” fra le più sfumate e variegate, forse perché come nessuno degli altri cinque (i sensi sono sei, almeno: vista, udito, tatto, gusto, odorato e propriocezione) sa coprire ed interpretare i significati della “paradossalità”, tratto essenziale del nostro vivere.

Per chi ha letto lo straordinario e stranissimo (detto nel senso più lusinghiero del termine…) romanzo di Patrick Süskind, «Il profumo», diremo insomma che la signora Sissel Tolaas è il moderno Jean Baptiste Grenouille, un Mozart delle essenze olfattive che sta realizzando studi molto interessanti su questa affascinante prerogativa umana ed animale ad un tempo.

Ma non era di Sissel Tolaas in particolare che volevo parlare oggi, bensì di un paio di idee che mi sono balenate alla mente oggi per strada, mentre, fermo al semaforo aspettando il verde, cercavo di ricordare quel suo nome un po’ inusuale, letto solo poche ore prima da qualche parte su internet. Come ho già detto in altri articoletti, oltre che agli odori, ai profumi ed a mille altre cose, la mia meraviglia è spesso dedicata anche ai meccanismi secondo i quali la nostra mente richiama le parole dal magazzino della memoria.

Quello che mi pare di aver capito, armeggiando mnemonicamente fra le sillabe del nome “Sissel Tolaas”, è che quando cerchiamo di immagazzinare una nuova parola poco familiare, scatta in noi un meccanismo inconscio che appiccica a quel termine inedito dei piccoli segnali di riconoscimento, dei tratti “intermediari di familiarità”, che mediano gradualmente il nostro sforzo di ricordare un suono assolutamente nuovo, per il tramite di altre caratteristiche a noi già note e ben consolidate nel nostro patrimonio di conoscenze.

In pratica, si tratta di una sorta di “post-it”, attaccati sopra la parola nuova, o sopra alcune sue parti, che ci forniscono indizi utili per andarla a ritrovare. Oppure, per tornare metaforicamente al tema con cui ho aperto, sono come tracce di odore concettuale che lasciamo sopra le parole, strusciandoci contro di esse nel momento in cui le impariamo, e la cui scia possiamo tornare ad odorare in seguito per orientarci nel loro rinvenimento.

Ma com’è stato che questa caratteristica funzionale della memoria mi si è manifestata nel caso del nome “Sissel Tolaas”? Ecco, leggendo alcune cose di lei su internet, ho pensato che fosse un nome da tenere a mente per il futuro. Magari un giorno potrà interessarmi leggere qualche suo libro, se ne usciranno. In genere non ho tanta memoria per i nomi, mi scivolano via piuttosto facilmente, soprattutto quelli stranieri. Così ho pensato che se questo lo volevo ricordare, dovevo costruirmi qualche abbinamento. Un po’ come ho detto prima.

D’accordo, confesso, e mi vergogno pure un po’, che l'artificio mnemonico adottato a livello conscio per immagazzinare il nome, era dei più grossolanamente pecorecci pensabili. Trattandosi per di più di una donna, aggiungere una “l” a quel goliardico lemma dialettale così naturalmente connesso alla femminilità, come può essere il termine “sisse”, era gioco piuttosto agevole. Col cognome invece la cosa si presentava leggermente più articolata e preso nel frattempo da altre occupazioni, ho lasciato perdere.

Tutta la cosa mi è poi sovvenuta alcune ore dopo, fermo al semaforo appunto, come vi dicevo. Sissel lo ricordavo, ma il cognome non mi veniva più. Ed è stato lì che mi sono accorto di come il mio meccanismo della memoria avesse applicato un utile post-it a tutta la faccenda, senza che la mia volontà ci mettesse lo zampino. Stando ad un primo indizio vago, mi sembrava che ci fosse di mezzo la parola “attrezzo” in inglese, “tool”. Però il promemoria decisivo stava nel fatto della assoluta mancanza della fastidiosa “disparità fra scritto e pronunciato”.

Con le parole straniere in genere, e con quelle inglesi in particolare, questo è un fattore molto importante per me. Quando devo memorizzarne una, ci si mette sempre di mezzo la sensazione sgradevole della differenza fra ciò che è scritto, come correttamente va pronunciato, e come invece tenderemmo a pronunciarlo seguendo lo spontaneo istinto di italianizzare i suoni.

In questo caso, è stato il sollievo dato dall’assenza di un simile fastidio, che mi ha agevolato nel rintracciare l’inizio del cognome in questione, e poi il resto è venuto da solo. In pratica, non solo avevo memorizzato del tutto inconsciamente che la parola “tool” poteva essere un valido appiglio, ma per di più l'avevo qualitativamente resa efficace marcandola con la depurazione della difficoltosa disparità fra scrittura e pronuncia.

Insomma, cari amici, forse quest’oggi non avrò trattato tematiche strettamente cruciali per la sopravvivenza del genere umano, e nemmeno sono troppo sicuro di essermi spiegato poi così bene, ma l’importante è tenersi visti e continuare a razzolare fra i pensieri con giocondità.

domenica 29 maggio 2011

Schiocchi di mutamento


Oggi tenterò di stabilire il nuovo record mondiale di immersione in assetto variabile nelle più estreme profondità del fraseggio sul nulla. Con sommo sprezzo del pericolo, mi produrrò in una performance mai tentata prima nemmeno dai più grandi venditori di fumo, affrontando un tema che rasenterà la vacuità assoluta.

Giusto venerdì scorso, me ne sono andato in libreria. Dovete sapere che ultimamente sto attraversando una fase di notevole e rinnovato ingiallimento. Inteso non come recrudescenza di una malcurata itterizia (oh, oh, oh!...battutona!…), ma come ritrovata passione per i libri gialli. Reputo i gialli opere narrative di “pura struttura”. Spiegherò meglio in seguito cosa intendo dire, ma fatto sta che, proprio per questo motivo, da parecchio tempo avevo accantonato la lettura di questo genere (eccezion fatta per le avventure del commissario Maigret, di Simenon, che fra i gialli è un capitolo a parte…), preferendogli altri ambiti letterari maggiormente portatori di contenuti, sostanze e ben più densi addentellati esistenziali.

Questo mio giudizio nei confronti dei gialli è fra l’altro parecchio parziale e zoppicante, ed anche questo si scoprirà dopo. Ad ogni modo, un primo dato sta nel fatto che, se hai già più o meno idea di cosa ci puoi trovare dentro, del libro giallo ad un certo punto senti il “bisogno”, la “necessità”.

Senza dunque anticipare più di tanto, vi stavo dicendo che sono andato in libreria, e l’intenzione era di accaparrarmi qualche titolo di Rex Stout. Avevo letto tanti anni fa alcune avventure del più raffinato ed intrattabile fra i detective, Nero Wolfe, e da allora è sempre rimasto fra i miei preferiti. Peccato che il mondo dei gialli, in Italia (ma forse anche da altre parti), patisca fortemente la dittatura della terribile “vecchietta inglese”. O almeno è così che me la immagino io, quando penso a quella scrittrice, sovrapponendo nella mia fantasia la sua immagine a quella di una delle sue investigatrici più famose, Miss Marple, trasposta nella fattispecie cinematografica attraverso le paciose fattezze della nonnetta Margaret Rutherford.

Ovviamente sto parlando di Agatha Christie. Di suo, ho sempre letto pochissimo anche per questo. Il reparto dei gialli classici di quasi ogni libreria è sempre stracolmo di romanzi della Christie, mentre ho sempre faticato a trovare titoli un po’ rari di altri autori notevoli, “giallisticamente” parlando, dei quali mi ero appassionato nel frattempo. Come Rex Stout, appunto, o Ellery Queen (pseudonimo condiviso dei cugini Frederic Dannay e Manfred Lee), oppure Erle Stanley Gardner, il creatore di Perry Mason. Con Agatha Christie, mi succede un po’ come con il calcio: non è che non mi piaccia di per sé, ma mi fa venire l’orticaria il fatto che te lo vogliano rifilare a tutti i costi. Lo so, lo so, le librerie e le tv devono andare dietro la suonata del mercato e se il pubblico vuole calcio e Christie, ingozziamolo pure di quello, ma non per questo io sono tenuto a rinunciare ad una mia privata, quanto infruttuosa e poco lineare ribellione.

Anche stavolta insomma, mi sono ritrovato immerso nel mare magnum della strabordante pletora “Agatha-Christieana”, mentre il povero Rex Stout non era pervenuto nemmeno di striscio. Decido allora di chiedere a qualche addetto della libreria. Lo faccio di rado, un po’ perché di solito mi piace razzolare fra i volumi allo stato brado, riservandomi il piacere di venir sorpreso da qualcosa di inaspettato, e un po’ per la mia “…natural salvaticità che schivo mi rende agli umani et al loro dozzinal commercio verbale…” (sembrerebbe quasi Petrarca...In realtà è una vaccata da me or ora concepita…).

Come anticipavo prima, però, dietro la ricerca del giallo si cela un bisogno e i bisogni fanno superare anche le più inveterate abitudini. Tanto più che stavolta l’impresa non si presentava poi così ardua e sgradevole. Il soggetto con cui intrattenere “commercio verbale” era infatti una leggiadra libraia. Non più una ragazza, ma una giovane donna, presenza non vistosa ma gradevole alla vista e pregiatamente incastonata nel contesto libresco tutto. Le dico cosa sto cercando e lei si mette a smacchinare sul computer per verificare: fra gli scaffali le risultano quattro titoli di Rex Stout.

Bene.

Passo anche sopra al dettaglio del suo pronunciare un po’ bislaccamente il nome dello scrittore (dice “Stutt” invece di “Stàut”) e la seguo nella ricerca per le varie scansie. Mi trova subito uno dei libri presenti, ma un po’ per strategia commerciale e po’ perché le avevo fatto intendere che avrei gradito acquistarne anche più di uno, se ci fossero stati, non si arrende nella ricerca. Gli altri titoli però non saltano fuori, per cui decide di far ritorno al terminale per una seconda verifica.

A questo punto s’impone un avviso: da qui in avanti, il racconto, pur rimanendo strettamente fedele ai dettagli dei fatti accaduti, s’immerge nelle plaghe della pura fantasia per quel che riguarda le interpretazioni dei medesimi.

E’ stato esattamente nel momento in cui la libraia si accingeva a riguadagnare la postazione al computer, che una micro magia valida mezza frazione di secondo si è verificata. Ho sentito un rumore piccolo ma distinto, un suono ben circostanziato, uno “sciaccch!” delicato, provenire dalla persona della libraia, mentre già si era trincerata di nuovo dietro il bancone della cassa, e quasi in contemporanea ho visto la sua mano riemergere da qualche parte là sotto, per tornare ad armeggiare coi tasti del terminale.

Ora, non mi voglio assolutamente spacciare per il “Mozart delle sonorità femminee”, ma non era impresa così ardua capire la natura e l’origine di quel suono: si trattava dello schiocco dell’elastico degli slip. E nemmeno volendo millantare il possesso dell'orecchio musicale assoluto per le melodie “mutandali”, credo di poter dire con un certo grado di precisione che si trattasse non del “principale reggente in vita”, bensì di uno dei due delimitanti inferiori, ai quali, com'è noto, spettano compiti di “presidio della frontiera” ben più delicati e misteriosi.

Come si sa, le teorie sui significati reconditi della gestualità spicciola che s'innesca a parallelo commento delle situazioni colloquiali, si sprecano.
Una donna si tocca continuamente le ciocche della chioma mentre vi parla?
E' un segnale inconscio di disponibilità sessuale!
Un tizio vi sta spiegando una cosa e nel frattempo armeggia senza tregua con i bordi della bocca?
E' un segnale inconscio di carenza sessuale!
Un altro ancora vi parla senza accompagnare le parole con nessun gesto di sorta?
E' senz'altro un segnale inconscio di disinteresse sessuale!

Possibile, mi sono domandato spesso, che quando ci si trova faccia a faccia con qualcuno, qualsiasi “parola gestuale” che diremo potrà essere usata sessualmente conto di noi? E se tutti quegli atti all'apparenza così innocenti e privi d'intenzione possono esser fatti risalire sempre ad un matrice sessuale, cosa si dovrà dire allora di un gesto come l'arpeggio delle corde “mutandesche”, che sembra invece addentrarsi con ben maggiore evidenza in tematiche inequivocabilmente pertinenti a quella sfera?

E invece no. Questa volta la teoria me la faccio in casa. Una teoria che non varrà un cicca frusta, ma dotata di una spettacolarità senza dubbio molto più elevata. Vi dico dunque che quel gesto non aveva proprio nulla a che fare con la dimensione sessuale. La libraia esprimeva invece molto più semplicemente, e molto più inconsciamente, la propria sintonia d'animo alla presenza di un lettore preso nel gorgo dell'impellente “bisogno” di gialli.

Così come il lettore di gialli è erroneamente ritenuto un ricercatore assiduo ed esclusivo di novità, di emozioni e di colpi di scena, allo stesso modo uno schiocco di mutanda in quel frangente faceva affiorare la punta dell'iceberg dell'intenzione subconscia di calarsi in una dimensione di domesticità e familiarità particolari. Che è poi quello che in effetti si ricerca nella lettura di una vicenda gialla.

Il lettore nel giallo cerca soprattutto la ripetitività celata dietro le mutazioni. Cerca qualcosa di stabile, cerca certezze e riferimenti affettivamente fondati. Cerca le abitudini ed i vezzi del detective prediletto, cerca tutto quel mosaico di personaggi accessori che gli fanno da regolare contorno. Cerca un mondo di sicurezze che, nella costante minaccia incombente di stravolgimenti epocali sempre in agguato, acquistano un grado di valore esistenziale ancor più prezioso.

Ecco allora spiegato come mai il mio ritenere i gialli un genere letterario apprezzabile soltanto per ragioni di “pura struttura”, rifletta in realtà un giudizio frettoloso ed imperfetto. Non c'è solo la bellezza possibile di un'architettura della trama costruita con particolare maestria. I gialli ci offrono invece a modo loro uno strumento molto sottile di consolazione filosofica, un lenitivo per l'anima.

Allo stesso modo, per via delle circostanze in cui è stato vibrato, il “la” mutandale irradiato dal diapason della libraia non aveva nulla delle tematiche erotiche e del loro senso più strettamente inteso, fatto di misteri e di disvelamenti che amiamo rimandare sempre col cuore in gola. Quella leggera nota di mutanda recava semmai con sé una sensazione di complicità amicale stabile e poggiata sulla padronanza delle emozioni. E se mai un lieve retrogusto di erotismo lo avesse pur avuto, si trattava di quello quotidiano e speso nella conoscenza perfetta delle reciproche abitudini ed attitudini sensuali.

Alla sera poi, a casa, ripensavo un po' a tutte queste impressioni, mentre assaporavo il piacere di iniziare uno dei Nero Wolfe che mi ero procurato. Tra le altre cose, proprio in quegli attimi su Gillipixiland si è abbattuto un nubifragio coi fiocchi. Alla mattina, gli esiti di quella baraonda meteorologica non erano dei più confortanti: la violenza del vento aveva tranciato a metà due alberi, cosa che mi ha costretto a tre o quattro ore di lavoro straordinario nei panni di improvvisato boscaiolo.

Mentre ero lì a smanettare e a sacramentare a suon di colpi di rampina e scure, fra rami e ceppi fracassati, improvvisamente mi è tornato alla mente il celeberrimo interrogativo un po' leggendariamente e un po' metropolitanamente assunto come postulato presunto della legge del caos: «...Può il batter d'ali di una farfalla in Brasile provocare un tornado in Texas?...».

Ed ho deciso che era giunto il momento di rivisitarlo nel seguente modo: «...Può lo schiocco della mutanda di una libraia in città provocare un nubifragio a Gillipixiland?...».

giovedì 26 maggio 2011

Persuasi a 360 gradi…fratto 4


Cari amici viandanti per pensieri, giusto giusto la volta scorsa, vi parlavo di una sofisticata via verso la blandizia commerciale. Ma se l’esempio di quel canale tv di cui vi parlavo si potrebbe paragonare, per acume e sottigliezza, ad una perla della persuasione architettata a livelli di sensibilità “universitaria”, tipo una roba da “Harvard della pubblicità”, ci sono invece casi in cui si sprofonda nel pieno della terza elementare dell’adescamento lucroso (con tutto il rispetto per i bambini di terza elementare, beninteso…).

Internet offre esempi del genere a piene mani e se succede che non sei eccessivamente gonzo, oppure non t’impestano il pc di schifezze virulente, ci puoi fare sopra anche due sorrisi. Tipo con questa mail che ho ricevuto di recente, talmente bislacca che a cascarci bisognava essere proprio laureati in “Gonzezza summa cum laude” (riporto in rosso tutte le parti originali della mail, sottolineando, se fosse necessario, che non mi sono inventato nemmeno una sillaba…).

Il tizio in questione mi scriveva per propormi un prestito. La sua padronanza della lingua e l’eleganza della sua prosa mi hanno subito impressionato molto favorevolmente (ohibò!...).
Ecco infatti come mi si è presentato:

«…Ciao, Vogliamo informare il pubblico in generale che offrono prestiti di tutti i tipi di personalità interessate fuori there…».

La cosa che mi ha rassicurato fin da subito è stato sentirmi parte integrante del “…pubblico in generale…”. Siamo tutti parte della grande famiglia del “…pubblico in generale…”, ho pensato, ed è meraviglioso.

Il secondo intenso elemento di forte “fidelizzazione clientelare” mi si è innescato nell’animo quando ho saputo che “…offrono prestiti…”. Ma chi li offre? E dai, suvvia, non staremo mica qui a sottilizzare.
“…Offrono prestiti…”, così, fattelo bastare…
La terza persona plurale “si è fatta prestito” e vaga nell’etere elargendo quattrini a destra e a manca. Basta andare un attimo “…fuori there…” e non si potrà fare a meno di essere investiti dall’irresistibile flusso finanziario diffuso per ogni dove.

L’aspetto che poi mi allettava ancor di più era in quel dettaglio che m’informava come questi prestiti fossero “…di tutti i tipi di personalità…”. Sono sempre stato un tipo un po’ originale e fatto a mio modo, in effetti. Così mi sono detto: hai visto mai che stavolta ho trovato chi mi capisce?

Confortato dunque da tutta questa serie di credenziali prestigiosissime, ho proseguito la lettura estremamente fiducioso. E le mie aspettative, in un primo momento, non sono state deluse da quanto ho letto appena sotto:

«…So se interessati, siete per tornare a noi via email all'indirizzo XY.Bank@ gmail.com e sarete contenti di averlo fatto…».

Il clima cosmopolita che ho continuato a respirare attraverso questo stile amichevole, punteggiato da quelle piccole interiezioni anglofone che suonavano tanto di garanzia finanziaria internazionale (“…ci deve essere dietro l’FMI…” pensavo sfregandomi le mani, “…c’è senz’altro lo zampino di Strauss-Kahn, siamo in una botte di ferro…”) mi andava persuadendo sempre più: si trattava una vera e propria calamita danarosa, l’ideale per l’uomo di mondo che vuole provare l’ebbrezza della tenzone lucrativa. Mi accingevo quindi a mescolarmi irresistibilmente nella numerosissima schiera di coloro che “…sono per tornare a loro via mail…”, pregustando già i momenti d’estasi in cui mi sarei sentito così “…contento di averlo fatto…”.

A questo punto però sono iniziate le richieste ed i patti hanno cominciato a cigolare. Ecco, in sequenza, le informazioni che volevano saper sul mio conto:

Nome :.................
Medio Nome :...........

Cognome :.......


Eh va beh, fin ci saremmo anche potuti mettere d’accordo, nonostante qualche difficoltà a proposito del “….medio nome…”. Ma è stato appena dopo che le richieste si sono fatte sempre più esose:

E-mail :.....................
E-mail Password ..........

Telefono di casa :...........

Telefono Ufficio :..........

Mobile :..............

Residenziale indirizzo :.......


Sì dai, e come no… intanto che ci siamo, chiedimi anche l’altezza al garrese quando mi piego a 90, che non ci pensiamo più. “…Residenziale indirizzo…”? Ma certo, “…tu volere anche mio numero conto banca…”? Oppure cellulare, preferenze e gusti di qualche amica? No, dico, vedi un po’ te…

Città :......................
Stato / Provincia :............

Sesso :....................

Stato civile :............

Occupazione :..............

Reddito mensile :..........

Nome Del parenti prossimi :.......

Olè, vai col liscio: “…Nonna, che mani grandi che hai…” mi è quasi venuto da sussurrare, “…E’ per prenderti meglio a strozzo, figliolo…dimmi anche qual è la stanza della tua casa che prende fuoco più agevolmente…non si sa mai che si renda necessario spedire i nostri agenti ad inoltrare i solleciti per le rate da restituire…”.

Indirizzo di Next of Kin :.......
Importo del prestito Needed :........

Durata del prestito (25 anni al massimo ):.............

Scopo del prestito: ..


No, niente. Cara società di prestiti, sappi che ti lasci dietro un potenziale cliente molto deluso. Io che mi credevo che tutto ciò fosse l’atto fondativo di un nuovo Rinascimento sociale, di un mondo rinnovato nel quale ciascuno avrebbe potuto dirsi fiero di appartenere al “…pubblico in generale…”, tutti insieme appassionatamente a ritrovarsi là, “…fuori there…”. E invece tu mi proponi un contratto di soli 25 anni, dopo avermi blandito con questo fior fiore di garanzie.
Niente, non se ne fa proprio niente. E ti va ancora bene se ti saluto il mio amico “…Next of Kin…”.



martedì 24 maggio 2011

Deratizize yourself


Quando ero bambino, mentre stavo diventando Gilli ma prima ancora che mi crescessero i pixel sotto le ascelle, avevamo i conigli. Non abbiate timore, però. Questa non sarà una nuova puntata di “catarifrangimento” degli zebedei all’insegna dei miei ricordi fanciulleschi. Se tiro in ballo i simpatici e pelliccevoli trapanatori di tane della mia infanzia, è solo per introdurre poi un altro discorso.

Benché destinate, ahimè, a finire in padella, a casa mia le care bestiole caudate “a pon pon” venivano trattate con riguardo e nutrite con buon grano, mais, erba medica, più tutti i comfort dovuti per una sana ed equilibrata crescita “conigliare”. Le loro riserve di cibarie, soprattutto il frumento, venivano custodite dentro dei secchi, che inevitabilmente finivano per attirare le bramosie di altri cugini roditori, tipo topastri e rattazzi di ogni genere.

Per scoraggiare i commensali abusivi, si provvedeva allora a lasciare in giro appositi pacchettini molto ghiotti per il topastro di turno, ma, sempre per il medesimo, letali il giusto da lasciarlo stecchito “ad incisivo inerme”, nel bel mezzo del fiero pasto. La cosa che appresi tuttavia con mia somma meraviglia bambinesca, era che dopo qualche generazione di ratti convitati a quei banchetti fatali, gli eredi andavamo sviluppando una loro immunità verso il veleno propinato. In pratica si tramutavano in una sorta di corazzate topesche in grado di gustarsi il frumento condito con pinzimonio di veleno. Per cui, se si voleva sperare in un qualche successo nella dissuasione topesca, dopo un po’ era necessario optare per prodotti diversi e più efficaci.

Detto questo, lasciando un attimo in sospeso i miei antichi stupori di bambino, smontate pure il teleobiettivo ed avvitate il grandangolo, che ora passo a parlare di faccende più attuali.

Non so se vi è capitato di vedere lo spot di quel canale tv che propone una nuova forma di intrattenimento. Anche se i dettagli non li ho capiti granché, mi pare che la cosa consista nella possibilità, da parte dello spettatore, di crearsi da solo tutta la programmazione in assoluta autonomia, definendo egli medesimo i tempi e i contenuti più graditi.

In linea di massima, l’idea sembra eccellente. Anzi, sarà certamente così. Una piccola rivoluzione del concetto di tv, per decenni sempre e solo subita passivamente, ora invece messa a disposizione con una flessibilità d’uso impensabile in passato.

E’ stato però il modo di presentare la novità in questo spot che mi ha leggermente insospettito, fin dai primi attimi. Ci sono questi personaggi famosi, molto cari al grande pubblico, che vengono fatti passare in rassegna in ambientazioni rilassanti ed amichevoli, e a turno sciorinano ciascuno una massima di saggezza tratta dalla più pura “dottrina antitelevisiva”.

Uno degli illustri testimonial se ne esce con una frase grosso modo di questo tenore: «…Dai valore al tuo tempo con una passeggiata, il film in tv te lo guardi dopo…». Un’altra rincara la dose: «…E’ ora di riprendere in mano quel libro lasciato a metà…». Fino all’apoteosi finale, con una sentenza solenne che, se letteralmente non è proprio come ve la riporto, nella sostanza del senso suona quasi come l’epilogo della “parabola del virtuoso snobbatore tv”, una cosa tipo: «…Non di sola televisione vive l’uomo, ma di ogni occasione che esce dalla bocca dei Numi Tutelari del tempo libero…».

Insomma, se ne escono con tutta una sequela di proclami, che non sembra più di essere dentro la pubblicità di un canale tv, ma nel bel mezzo della sagra del luddismo catodico, alla grande esposizione universale della “tele-clastia”. Tanto che, per la gran puzza di stonatura subodorata, ad un certo punto mi sono tornati in mente proprio i vecchi ratti mutageni della mia infanzia.

Non si comporta forse in modo analogo il pubblicitario moderno, quando si trova a dover fronteggiare il veleno della disaffezione dal prodotto, espressa dal potenziale cliente? Come i topi che ambivano a foraggiarsi del cibo destinato ai miei conigli, anche gli spottaroli odierni si corazzano di nuove stupefacenti abilità nel raccontar palle, pappandosi in un boccone la rinnovata credulità del consumatore.

Per colmo di coincidenza, era capitato diverse volte anche a me di ricevere telefonate nelle quali mi veniva proposto di sottoscrivere un abbonamento televisivo parallelo. Ogni volta ho sempre declinato l’offerta e in risposta all’insistenza dell’interlocutore, che voleva sapere la rava e la fava del mio rifiuto, mi pare di aver anche detto una volta che se proprio non c’era niente sui canali tradizionali, non mi faceva poi così schifo andarmene a letto con un buon libro in mano.

Pensavo di essere stato astuto come un cervo, ma non sapevo che la mutazione genetica eri lì dietro l’angolo, in agguato per compiere l’adeguamento di resistenza anche alle forme più velenose di disinteresse consumistico.

Cosa non ti è dunque andato a studiare il pubbli-topastro, il ratticitario? Si è armato d’ingegno ed ha operato la sua permuta identitaria per ingollarsi in un sol boccone la rinnovata e venefica disaffezione del telespettatore.

Alla fine, tutta l’operazione, così come tanti altri meccanismi fondanti dell’apparato pubblicitario, suona un po’ con sfumature sconsolanti. Si profilerebbe quasi un sentore diabolico di sottofondo, se non fosse per il fatto che i termini sono sgangheratamente ribaltati.
Un tempo l’anima, se decidevi di venderla, ti veniva ripagata con controvalori straordinari. Adesso invece di straordinario c’è solo il rovistamento della tua anima, delle tue abitudini, dei tuoi gusti, delle tue predilezioni, delle inclinazioni, e in conclusione della fola, se decidi di fare l’affare, ti tocca pure sborsare te dei quattrini...

Ah, vecchio Faust! Se anche tu avessi avuto la casa infestata dai ratticitari, non so come te la saresti cavata…

sabato 21 maggio 2011

Il giorno in cui Gilles divenne maggio


Cari amici viandanti per pensieri, l’ultima volta che ci siamo sentiti vi parlavo della mia prerogativa di saper coltivare di tanto in tanto anche le “non-passioni”, come quella per la Formula 1, ad esempio (e se proprio non avete di meglio da fare, è consigliabile dunque leggere anche il precedente articoletto…).

Diciamo che le “non-passioni”, diversamente dalle loro cugine passioni, quasi “don-abbondantemente” parlando, non te le puoi dare. Più che altro, sono loro che ti vengono a cercare. Infatti fu così che alcuni anni dopo la surreale avventura motoristica vissuta in quel di Monza, mi capitò di assistere ad un altro Gran premio, questa volta ad Imola. Furono i miei vecchi amici delle medie a coinvolgermi in quel caso, qualche tempo dopo il termine della nostra avventura scolastica comune.

Ci recammo in treno nella cittadina emiliana e i ricordi di quell’occasione, pur essendo sempre velati di un’aura leggendaria, risultano molto meno vistosamente sgangherati. Forse anche per il fatto che nel frattempo un po’ ero cresciuto, facendoci leggermente il callo a quest’idea che nel mondo le cose strane capitano molto più di frequente di quanto non si creda. La prima impressione che ricordo è la dimensione di “motorizzazione assolutistica” in cui mi trovai immerso appena messi giù i piedi del treno. Per raggiungere l’autodromo dovemmo fare un buon pezzetto a piedi, ma nonostante la distanza, tutta l’aria, come un krapfen alla crema, era già ricolma dei rombi di vetture di categorie minori, che scorrazzavano “sgommazzando” ringhiose fra le anse del circuito, a fare da antipasto alla gran abbuffata ufficiale del pomeriggio.

Anche stavolta la ricerca della postazione più propizia venne regolamentata da una sorta di legge primordiale della sopravvivenza. Un formicaio di persone si disperse lungo curve e rettilinei. Alla fine riuscimmo a piazzarci in un punto discreto, una sorta di collinetta chiusa in un largo tornante, dalla quale si potevano scorgere ben due tratti della pista, col vantaggio della leggera sopraelevazione un po’ distanziata, che avrebbe anche attutito l’effetto “lampo-visivo” scaturito dalle vetture, lasciandocele ammirare per qualche attimo in più, sul lungo campo visivo a disposizione.

Come mai tutta questa fortuna, stavolta, mi domandavo? Presto detto: in quel posto non si poteva stare, era una zona interdetta al pubblico per la scarsa sicurezza. Ero entrato pure io nel meccanismo della “passione”, pur non auspicata, mettendomi a fare cose insensate e contro la mia volontà, come succede ad ogni buon appassionato che si rispetti.

Però il mio spirito “non-passionale” più vero si prese una bella rivincita appena dopo, perché della gara non mi ricordo poi tanto, ma non ho scordato un pittoresco episodio al suo contorno. Poco distante da dove eravamo piazzati, si era accampato un gruppo di altri quattro o cinque ragazzi, un po’ più grandi di noi. Arguimmo che doveva trattarsi di fieri esponenti di quella tribù maschile che, con rispetto per essa parlando, non apprezza la “patata” nelle sue mille femminee declinazioni.

Trascorsero infatti tutto il tempo prima della gara coricati su un ampio panno steso sul prato, a giochicchiare, a scherzare fra di loro dandosi buffetti affettuosi, pizzicotti, spinte, a farsi sgambetti per burla, condendo i proprio lazzi con gioiose risatine. Da bandiere e striscioni che si erano portati appresso, si capiva anche che erano tifosi del pilota brasiliano Nelson Piquet, ma non era ben chiaro se per motivi strettamente sportivi o per altre predilezioni estetiche. Fatto sta che pochi attimi dopo l’inizio gara, i quattro giocosi giovialoni di colpo si disinteressarono di tutto, mettendosi bellamente a dormire sul loro panno, fino a poco prima teatro di tutte quelle moine.

Veramente bizzarre sono le strade della memoria, perché non ricordo chi vinse il Gran Premio, ricordo vagamente alcuni nomi di concorrenti (Prost? Patrese? Tambay? Arnoux?...boh…) e forse anche il fatto che l’ululato selvaggio dei vecchi motori di qualche anno prima si era imborghesito nel sordo brontolio delle nuove vetture con il turbo, ma non ho scordato la stravagante pantomima di quei ragazzi su quei pochi metri quadrati di panno, divenuti per incanto il circoscritto regno di una piccola favola moderna dell’assurdo, quasi un “happening” artistico all’insegna del disinteresse passionale assoluto, nel mezzo di una faccenda “molto seria” e rumorosa come un Gran Premio di Formula 1.

Un altro ricordo di “non-passionalità” motoristica mi lega tuttavia a quel mondo della biella esasperata, e risale al pomeriggio di un sabato che, anche allora come adesso, “era de maggio”. Questa volta è un ricordo più sfumato, malinconico, universalizzante, un po’ com’è nella natura del mese di maggio, a mio parere. Questa volta non c’entrava nessuna gita a nessun Gran Premio.

Trascorsi invece quel pomeriggio nel più completo e consueto oblio motoristico, a casa di un amico con altri amici, a giocare a Subbuteo o dedicandoci ad altri simili passatempi post-fanciulleschi. Uno di quei pomeriggi da ragazzi, durante i quali il tempo sembra fermarsi, tanto ci si sente in armonia insieme, che non si pensa a nulla ed i concetti di futuro e di passato sono puri infortuni di fantasie calcolanti, lasciate per qualche ora finalmente fuori dall’uscio.

Al momento di salutarci, ci venne voglia di accendere un attimo la tele e la mesta notizia c’investì tutti quanti: durante le prove del Gran Premio di quel fine settimana, il campione canadese Gilles Villeneuve era stato vittima di un gravissimo incidente e si disperava per la sua vita. Di colpo l’incantata atmosfera delle ore trascorse nella gratuità più assoluta del gioco, si mescolò a note d’irrealtà profonda. Fu molto strano, come se dal nostro territorio bambinesco e campagnolo delimitato da sensazioni diffuse d’inutilità pura, fossimo stati proiettati in un parallelo stato emotivo di altrettanto non-senso, questo però di carattere molto più serio, gravoso ed universale.

Seppi poi che il povero Gilles non ce l’aveva fatta e non ebbi quasi la forza, così come non riesco a ritrovarmela dentro nemmeno oggi, di domandarmi perché l’uomo si ostina a voler fare cose talmente inutili ed insensate, come lanciarsi a 300 km orari dentro una lattina posata su quattro ruote. Farsi quella domanda era altrettanto una perdita di tempo che chiedersi come mai gli umani sono così affamati di miti, sia da vivere in prima persona, sia da veder impersonati da altri.

Fin dall’attimo in cui sgusciamo fuori dalla pancia della mamma, sentiamo gravare su di noi i pesanti vincoli del “limite”, che poi per tutto il corso della nostra vita a venire cercheremo di scrollarci di dosso in infinite maniere. Chi ingozzandosi di conoscenza fino ad intridere le più intime fibre del proprio essere; chi viaggiando per ogni dove del mondo; chi rimanendo praticamente sempre nello stesso posto, ma spaziando altrettanto con le fantasie e la capacità di saper vedere sempre rinnovato il nuovo, fra i fitti peli della consuetudine; chi amando migliaia di donne, chi riuscendo a vederne e ad annusarne diecimila e oltre, sempre nella stessa.

Domandarsi perché quel giorno Gilles Villeneuve era morto non poteva portare dunque in nessun luogo occupato dai significati della logica e del buonsenso. Così com’era stato per Achille o per James Dean, o come sarebbe stato per Ayrton Senna. L’uomo, per sopravvivere sentendosi veramente tale, ha bisogno di nutrirsi di utopia forse ancor più che di pane. Per questo, in fondo, pur nello strascico di tristezza profonda che mi si depositò dentro dopo quella sequela di avvenimenti, non mi stupii più di tanto del fatto che Gilles Villeneuve, quel giorno, fosse diventato maggio.


venerdì 20 maggio 2011

Tutti insieme “non-appassionatamente”


Come tutti gli esseri umani, anche io provo passioni.
Ne provo tantissime e non di rado anche parecchio sconquassanti. Ma stranamente, dal di fuori, non si nota un granché di tutto ciò che mi bolle in pentola. Ancor più stranamente, ricordo che questa mia attitudine iniziò ad acuirsi soprattutto nel periodo adolescenziale. Proprio in quella fase della vita così ricolma per ciascuno di sconvolgimenti emotivi e di potenti vibrazioni interiori, in me si sviluppò una sorta di pudore nel lasciar trasparire il coinvolgimento in fervori di ogni genere, un senso della misura comportamentale oltremodo persistente quanto, probabilmente, inutile.

Avevo “deciso”, oppure lo aveva deciso per me qualche entità psichica (…o “numinosa”, che è poi un po’ la stessa cosa) di buttare tutto di dentro, lasciando quasi completamente sguarnite le palizzate del fortino della mia personalità, affacciate verso la grande prateria del mondo là fuori.

Questo atteggiamento si è portato dietro alcune conseguenze. La più vistosa sta forse nel fatto che le mie passioni non sono praticamente mai totalizzanti. Non mi voto anima e corpo alla “fede” per una passione. Rimane sempre fuori un margine di indipendenza critica, guidata da una non indifferente dose d’ironia, che mi offre nel contempo la consapevolezza di poter cercare “oltre” in ogni momento. O perlomeno, dopo aver fatto passare una discreta fase di attaccamento affettivo ad un certo aspetto della vita. In questa maniera, credo di esser riuscito, nel tempo, ad assaggiare tanti aspetti buoni di tante passioni, senza aver mai fissato stabilmente la mia dimora emotiva nel territorio di nessuna di esse.

Se non fosse espressione eccessivamente trombonesca e pretenziosa, mi piacerebbe definirlo “nomadismo passionale”.

Ho amato alla follia la pallacanestro e anche oggi il ricordo delle mille giornate trascorse con gli amici al campetto, danzando come sciamani ispirati dal ritmo dei nostri palleggi, mi commuove. Ma quando incappo in una partita di basket mentre slalomeggio fra i canali tv, raramente il mio interesse viene attirato in misura particolare. E impressioni simili si potrebbero riportare anche riguardo a tanti altri miei “appassionamenti”.

Altra conseguenza di questo mio ambivalente e bifacciale modo di vivere le passioni, è che anche dalle “non-passioni” mi possono derivare, e mi sono derivati, momenti emotivi particolarmente importanti. Come dall'automobilismo, ad esempio.

Mi riferisco in particolare, alla Formula 1, ovviamente. Della Formula 1 e delle automobili non me n'è mai potuto fregare di meno. Tuttora lo considero uno degli sport più pallosi che si possano immaginare. Il potere soporifero di quei domenicali pre-partenza post-prandiali, per me rimane sempre un portento incredibile. Non ci si capacità mai a sufficienza della bizzarria di uno sport in grado, da una parte, di impiegare le tecnologie più esasperate e di far raggiungere a degli esseri umani le velocità più elevate pensabili oggi stando attaccati alla superficie terrestre, ma nel contempo così efficace nel far venir sonno.

Eppure alla Formula 1 sono legato da tre ricordi, che pur con sfumature d'animo differenti, mi sono piuttosto cari a loro modo. Il primo riporta la mia memoria a quando ero ancora un bimbo o poco più. Mio babbo decise che tutta la famiglia quella domenica avrebbe fatto una gita a Monza, al Gran Premio. In qualche maniera, si rivelò una giornata memorabile e ricca di sorprese, un misto di stupore e mistero minaccioso, ai miei occhi infantili ancora troppo poco avvezzi a familiarizzare con certe umane follie passionali e con certi eccessi.

Tutto e tutti sembravano esser stati inghiottiti da un turbine di non senso in crescendo, quel giorno. La mattinata si era aperta nella relativa normalità. Ricordo che nel lungo girovagare per il grande parco in cerca di un posto di osservazione ottimale, rasentammo l'antica parabolica del vecchio tracciato del circuito, ormai abbandonata per la sua pericolosità. Mi parve letteralmente “un muro” e nella mia fantasia fanciullesca si fecero largo immagini di lontani bolidi “ a salsiccioto” dei tempi eroici di Nuvolari e Fangio, arditamente incollati dalla forza centrifuga a quella parete stradale ormai tutta screpolata e decrepita.

Poi, di man in mano che si avvicinava l'ora della gara, il delirio prese forma sempre più nettamente. La gente, letteralmente invasata, non si faceva scrupolo di abbandonarsi agli eccessi più smodati, pur di posizionarsi in quel posticino ritenuto più strategico da permettere la visione di un mezzo millisecondo in più di bolide sfrecciante. I giganteschi tabelloni pubblicitari, fatti di tralicci metallici e cartone, si tramutarono in graduali alveari zeppi di persone arrampicate sopra, che forando il pannello, si producevano la propria privata finestrella di visione.

Ogni albero in prossimità della pista, ma dico letteralmente ciascuno di essi, poteva vantare il suo inquilino, un novello barone rampante del fanatismo motoristico, abbarbicato fra i rami e ben deciso a non cedere la posizione ad altri, anche sfidando le impellenza dei normali ritmi fisiologici del corpo. Ve lo giuro, vidi un povero demente pisciare di sotto incurante di tutto, del pudore, del buon senso e pure delle teste dei sottostanti, che lo ricambiarono giustamente con accidenti ed invettive ben più salate della pioggia acida da essi forzatamente subita.

Gli altoparlanti ripetevano senza sosta inviti a non salire su nessun rilievo di nessun tipo, girava persino voce che un tizio si fosse fatto veramente male, cadendo di sotto. Forse si era addirittura spiaccicato senza più rimedio alcuno. Le frecce tricolore dipinsero il cielo, ma sempre per la fitta vegetazione, l'effetto più evidente della loro esibizione lo potemmo “godere” soprattutto col naso, sotto forma di denso polverone bianco-rosso-verde calato al suolo.

Poi finalmente venne dato il via ed un minimo di giustificazione ad aver sopportato fino a quel momento tutto quel gran termitaio di pazzi, lo potemmo assaporare. Non ricordo di preciso, ma mi pare che fossero in gara tra gli altri Mario Andretti, con la Lotus dalla nera livrea John Player Special, forse Niki Lauda o Jody Scheckter per le Ferrari, forse James Hunt, addirittura con la stranissima Tyrrel a 6 ruote. I ricordi si confondono molto e non sono sicuro di nessuno di questi nomi, ma quello di cui sono ancora più che certo è che non avevo mai visto delle cose andare così forte e fare così tanto rumore. Ad ogni nuova tornata del gruppone di auto, era come una sequela di urla strazianti emesse da rapidissime belve meccaniche nel riverbero di una foresta di umani regrediti a quello spirito tribale e selvaggio, fuori da qualsiasi tempo.

Non ricordo nemmeno chi vinse, ma alla fine la bandiera a scacchi fece calare il sipario su quel sabba sgangherato officiato in onore degli dei della biella e del pistone, e tutti poterono riversarsi sull'asfalto della pista, ammirando anche da vicino qualche vettura rimasta in panne, trascinata fino ai box a motore spento.

Poi ci fu solo il tempo per un paio di dettagli gentili: la frittata coi funghi che la mamma aveva portato da casa, un assoluta novità, mai assaggiata prima con quell'ingrediente dentro, sano promemoria del fatto che la nostra campagnolità ci avrebbe atteso tutta integra ed incorrotta una volta rientrati a Gillipixiland, nonchè la fugace visione della macchina di Diabolik (solo in seguito seppi trattarsi di un Jaguar E type) mescolata alle vetture del pubblico accorso, che illuminò la mia fantasia di fumettaro inveterato sin dalla più tenera età.

Questo giusto in tempo per immergersi nel ritorno a casa, che si rivelò non meno assurdo di tutto il resto della giornata, imbottigliati con la nostra ruggente Fiat 128 in una coda senza fine, mentre sotto gli occhi passavano lenti cartelli di amene località con l'immancabile desinenza in “ate”, calandoci in un mantra toponomastico che solo a pronunciarlo faceva scattare dentro l'irresistibile frenesia di mettere su una fabbrichetta o un mobilificio, specialità credenze in truciolato puro e rivestimento in formica.

Giunti a questo passo del mio confabulare, cari amici viandanti per pensieri, non posso scansare la constatazione di quanto il discorso mi si sia allungato oltre ogni aspettativa. Dunque, per non tediarvi oltremodo, vi rimando ad una prossima puntata, sempre dedicata alla mia “non-passione” per la Formula 1.

martedì 17 maggio 2011

When I fall in words, it will be forever…


Ci si può innamorare di una frase? A me capita continuamente.
Certo, è molto meglio quando succede con persone vere e proprie. Un bel pezzo di figliola per gli ometti, o un fustaccione con due baffetti da sparviero per le fanciulle. Ma l’innamoramento “frasesco” ha anch’esso i suoi perché.

Per certi aspetti, rassomiglia tra l’altro all’infatuazione propriamente detta, quella classica fra esseri umani. Magari conosciamo una donna o un uomo da tanto tempo, ma solo a partire da un certo momento particolare in poi, intorno alla sua aura s’innesca l’accensione di una miccia di stupore che ci fa vedere quell’individuo con occhi diversi e rinnovati. Con le frasi può succedere una cosa simile.

C’è una canzone di Simon & Garfunkel che a voler esser tirchi nel conteggio, posso dire di aver ascoltato non meno di 8563 volte: «The 59th street bridge song». In altre occasioni ho già parlato del mio inglese un po’ zoppicante e della mia propensione a lasciarmi ammaliare dalla sonorità e dall’esoterismo delle parole, trascurando forse troppo i significati effettivi dei testi in questione. Anche «The 59th street bridge song» l’ho sempre canticchiata senza dare troppa importanza al senso delle parole, gustandomi semplicemente la bellezza dei loro suoni.

Ma l’altro giorno mi è venuto da fischiettarla e mi sono fermato a rifletterci un attimo, ho considerato con più attenzione quello che il testo diceva, me lo sono chiarito meglio cercandolo sul web e “zac!”: ecco là la frase galeotta e tutta scintillante di seducente magnetismo.

Già il clima generale della canzone è molto avvolgente, come un manto di suoni e significati. A voler individuare un tema principale trattato, possiamo dire che sia l’estasi celata nell’inutilità di certi momenti. O meglio ancora: come nell’assenza di scopi possano nascondersi talvolta folgorazioni di senso fra le più belle ed intense che vorremmo la vita possedesse.

Il testo è molto semplice:

«...Slow down, you move too fast.
You got to make the mornin' last.
Just kickin' down the cobblestones,
Lookin' for fun and feelin' groovy.
Ba da da da da da da, feelin' groovy.

Hello, lamp-post, whatcha knowin'?
I come to watch your flowers growin'.
Ain'tcha got no rhymes for me?
Doo it doo doo, feelin' groovy.
Ba da da da da da da, feelin' groovy.

I got no deeds to do, no promises to keep.
I'm dappled and drowsy and ready to sleep
Let the morningtime drop all it's petals on me
Life, I love you, all is groovy!
Ba da da da da da da, feelin' groovy...»

Come vedete, si parla di una giornata spesa semplicemente a far passare il tempo. Una vera e propria enunciazione dei perfetti “compiti” del perdigiorno provetto. Ai primi due versi, compare subito una considerazione fantastica:

«...Slow down, you move too fast.
You got to make the mornin' last...»

«...Rallenta, ti muovi troppo alla svelta.
Devi farti durare la mattinata...».

L’idea di una mattinata da far durare, come un lungo bicchiere di buon Chianti, o un articolo di giornale particolarmente coinvolgente, oppure il capitolo di un libro che non dà tregua alla fame di leggere oltre, o ancora un pacchetto di insidiose gelatine, è bellissima da immaginare.

Ma il passo oggetto della mia infatuazione verbale vera e propria cade un po’ più avanti, in apertura della seconda strofa:

«...Hello, lamp-post, whatcha knowin'?
I come to watch your flowers growin'...»

Il primo verso è di per sé un inno alla gratuità pura: «...Ciao, lampione, cosa mi dici?...».
Ebbene sì, immersi in un'atmosfera pervasa da una particolare armonia esistenziale, quando ci si sente un pulviscolo di molecole espanse sino ad andare a coincidere con tutto le particelle che immaginiamo occupate dall’universo a noi più caro, rivolgere la parola ad un lampione può essere il gesto più normale del mondo.

Ed è poi appena di seguito che sboccia la grazia poetica più profonda, nella sua sconvolgente banalità: «...Sono venuto a veder crescere i tuoi fiori...». Questa frase implica una serie di insospettabili risvolti “sentimental-amicali”.

E’ vero che qui l’affermazione rimane surrealmente sempre rivolta al lampione. Ma per me si può idealmente espandere a qualsiasi tipo di interlocutore a noi universalmente caro. Se abbiamo l’opportunità di vedere i fiori crescere insieme a qualcuno, vuol dire che il tempo trascorso insieme a quel qualcuno è portatore di un pregio particolare. E’ il tempo più disinteressato che possiamo pensare, un tempo disponibile a lunghissime dosi, un tempo il cui trascorrere non importa.

Insieme ad una persona con la quale si può anche stare a vedere crescere i fiori, non c’è bisogno di parlare tanto. Ampi spazi di silenzio sono tollerati, valgono come i discorsi più complessi, perché l’intesa è consolidata su una confidenza ed una familiarità a lungo esperite. Una persona con la quale si sta bene guardando crescere i fiori, ci fa star bene anche in tutte le altre situazioni immaginabili. Con una persona così, si possono fare le cose più inutili del mondo, come stare semplicemente vicini senza dire nulla e sentendosi l’un l’altro, oppure fare l’amore.

Insomma, può capitare di pensare un po’ a tutte queste cose, quando ci s’innamora di una frase. Eppure alla fine, si può anche concludere: in fondo, è soltanto una canzone.


sabato 14 maggio 2011

Di miopie e dettagli


Se è vero che tre indizi fanno una prova, allora io sono fortemente sospettato di timidezza aggravata e reiterata (o forse mi confondo con la regola che dice “tre corner, un rigore”, ma va bene lo stesso).

Ho sentito spesso persone piuttosto diverse fra di loro in quanto a modi di fare e carattere, che sostenevano di essere timide. La questione è sempre alquanto sottile. Da una parte entra in gioco la capacità di auto-valutarsi, che non è mai compito banale. Per altri versi invece, s’innesca il fattore “theory declared – theory in use”, ossia il meccanismo secondo il quale ciascuno di noi si muove nel mondo sulla base di una certa immagine posseduta di se stesso, pur non essendo poi così scontato che questa struttura mentale proiettata coincida per forza con la realtà effettiva delle cose. Anzi, nella maggior parte dei casi i due profili si differenziano e anche di parecchio.

Codesto parrebbe un autentico «culo di sacco», dunque. Come se ne esce? Uno dei modi sarebbe fidarsi del giudizio altrui. Ma anche qui ci si imbatte nuovamente in fattori di ordine soggettivo, per cui siamo un po’ da capo. L’altra strada potrebbe essere osservare gli indizi a disposizione, ed è quello che stavo per fare fin dall’inizio, se la mia balorda attitudine di partire per la tangente argomentativa non mi avesse dirottato il discorso fra le verze concettuali.

La prima traccia-fattore di fondo che deporrebbe a favore del mio essere timido, pare sia la miopia. Tempo fa lessi da qualche parte che il difetto nel vedere da lontano sarebbe innescato nel tempo, oltre che da moventi di tipo fisico, anche da componenti psicologiche significative. Il miope, secondo questa ipotesi, sarebbe un tizio che si ritrae dal mondo, rifiutando inconsciamente di spaziare con lo sguardo verso scenari distanti dal proprio intorno più familiare ad addomesticabile.

Vero o presunto che sia questo teorema, rimane un fatto: io sono miope (astenersi da battutacce, prego…).

Il secondo indizio concerne la sfera del parlare. Così come la mia vista è pigra nel diffondersi limpida sulle lunghe distanze, allo stesso modo anche le mie modalità nel conversare sono fortemente circoscritte da una sorta di miopia oratoriale, che mi spinge per istinto a ricercare piuttosto il dialogo sulle brevi distanze con le altre persone. Mi trovo a disagio se devo colloquiare con interlocutori posizionati piuttosto lontani da me. La voce mi si sfoca come la vista, le parole escono con contorni nebulosi e finisce quasi sempre che l’altro non capisce quel che dico.

Sarebbe parecchio buffo tuttavia se si potesse ovviare a tale miopia verbale indossando piccoli megafoni da conversazione a distanza, in forma di “occhiali vocali”. Si potrebbe forse dar vita in questo modo ad una nuova professione: l’«ottico vocale». Invece di farti leggere quelle righe di letterine sempre più piccole, ti farebbe sostenere una breve conversazione sul tempo, allontanandosi nel frattempo per verificare l’accettabilità del tuo volume in base alla distanza, e tarando su misura il tuo mini-megafono personalizzato, con i necessari decibel correttivi.

Del terzo “mistero intimidente” di cui sono affetto, mi sono accorto giusto alcuni giorni fa. Ero in giro per la città, con l’idea di scattare alcune fotografie, da utilizzare a corredo di un piccolo articolo che ho scritto (questione che esula dal mio presente argomentare…).
L’intenzione era di ritrarre i luoghi e le atmosfere di un certo quartiere caratteristico della città. Mi sono messo a scattare infilate di borghi, scorci ci strade, lunghe apparecchiate di case, senza lesinare ampi abbracci grandangolari, generose spaziature. Ma di man in mano che procedevo a furia di clic, mi rendevo conto che le immagini colte risultavano anonime, insipide, compositivamente smunte.

Poi mi è venuta l’idea di ritrarre una targa stradale in marmo, posta ad angolo sul muro di una casa, ad un crocicchio di due vie. Ho compreso nell’inquadratura anche alcuni altri dettagli circostanti, la pittoresca scrostatura di un muro, un lampione aggettante sulla via, dei vecchi scuri ad una finestra chiusa chissà da quanto tempo, ed è stata la prima foto decente che mi riusciva.

Lì ho capito di essere, anche in questo caso, un miope fotografo da dettaglio. Nella lunga distanza fotografica, mi smarrisco, il gorgo dell’«horror vacui» panoramico mi trascina giù, verso i suoi abissi d’insipienza espressiva. Fra i particolari invece mi sento a casa, così come quando posso finalmente levarmi gli occhiali e lasciar spaziare lo sguardo sul familiare andirivieni delle righe di un libro, oppure conversare amabilmente faccia a faccia con una persona che mi sta ad ascoltare davvero.



martedì 10 maggio 2011

Free as a bumblebee


Cari amici viandanti per pensieri, avevate mai sentito il detto «…Maggio, ronza l’ape nel foraggio…»?
No, eh? Per forza, è la prima volta che lo sento anche io…

Eppure per me la primavera in corso si sta rivelando ricca di coincidenze “apesche”, di piccoli episodi punteggiati dalla presenza di quegli spettacolari mini-amici ronzanti. Non è passato poi tanto tempo da quando vi ho raccontato del bombo e delle sue evoluzioni fra i fiori del ciliegio, che pochi giorni fa la pelliccevole portaerei in miniatura è tornata a farmi casualmente visita nel pieno della sua fiera buffezza giallo-nera.

E’ successo sabato pomeriggio.
Ma già in mattinata avevo avuto avvisaglie circa il fatto che si sarebbe trattato di una giornata all’insegna del leggiadro ronzar entomologico. Lungo il fossato che mi ritrovo dietro casa, c’è un arbusto al quale non daresti un centesimo per circa 350 giorni all’anno. Ma quando mette fuori i suoi fiorellini, si trasforma e soprattutto diventa una vera pacchia per le api. Me ne sono accorto passandoci di fianco appunto sabato mattina. Il ronzio era veramente spettacolare, sembrava creare una piacevole cappa sonora a protezione di tutta quella gran palla vegetale in fiore.

Sono immediatamente corso a prendere la macchina fotografica e seguendo l’esempio delle api che si rimpinzavano di polline a quattro palmenti, mi sono fatto anche io una gran scorpacciata di immagini. Era il paradiso del “bee watching”, su ogni fiore c’era un’ospite e non si sapeva proprio dove prendere: c’era l’imbarazzo della scelta, da tanti che erano i petali sui quali poter ravanare di obiettivo.

Vi riporto alcuni degli scatti più belli usciti da quella pantagruelica sessione fotografica, perché purtroppo l’evento culmine della giornata non sono riuscito a fermarlo con le immagini.
Purtroppo, ma anche per fortuna, perché in questo modo posso divertirmi ancor di più a raccontarvelo.


Sabato pomeriggio, mi sono ritrovato dunque nella serra di un fioraio che vende all’ingrosso. Non chiedetemi come mai sono andato a finire in quel posto. Unito alla notizia che posseggo un telefonino color rosa, questo fatto potrebbe far sorgere in voi strane supposizioni circa il mio conto. Ma soprassedendo su questi dettagli, rimane il fatto che me ne stavo lì ad ammirare sfaccendato alcuni graziosi fiorellini in vaso.

Non saprei dirvi il nome, perché come ben sapete, sono un campagnolo sgangheratamente inesperto. I nomi di piante e fiori, anche ammesso di averli sentiti qualche volta, difficilmente rimangono ancorati alla mia memoria. In questo senso, la mia ammirazione per la natura è proprio di un’immediatezza preistorica, perché anticipa le epoche delle classificazioni e delle assegnazioni di nomi e specie alla flora tutta.

Vi posso dire tuttavia che questi fiorellini somigliavano a tante piccole bocche. Li formava sostanzialmente una coppia di petali primari, incastonati uno sopra l’altro come due arrotondate labbra floreali. Già di per sé ce n’era abbastanza per rimanere ammirati da quel piccolo fenomeno di grazia e leggiadria. Ma il bello stava per venire di lì a pochi istanti.


Chi non mi sono visto infatti ronzare nei paraggi, giusto quel tanto per distrarmi dalla contemplazione floreale in corso? Era proprio lui, il mio caro e vecchio amico bombo, quella gran bombarda impellicciata in persona…

«…Mi sa che adesso ne vediamo delle belle…» ho pensato, «…quando c’è di mezzo quel gran bombarolo impeluriato, non sai mai cosa può accadere…».
E infatti lo vedo che con la sua consueta e simpatica goffaggine si mette a marcare stretto quel particolare fiore dalle labbra. Poi si avvicina sempre più e finisce per posarsi sul “labbro” inferiore.

E’ stato a quel punto che si è verificata la piccola meraviglia. Quando le zampette del bombo si sono posate sul petalo di sotto, la bocca del fiore è parsa animarsi di volontà propria. Le mascelle vegetali si sono gentilmente dischiuse, di modo che la bestiolina ha potuto calarsi a testa in giù dentro quel ghiotto calice.

Ovviamente, la dinamica effettiva della scena era stata dettata da un fenomeno molto più ragionevole, esattamente opposto all’apparente. Ossia, era stato il peso della ciccevole ape a causare la schiusa del pendulo petalo, ma tutto ciò rendeva forse ancor più affascinante l’evento. Sapere che fiore e insetto sono uniti da questa sorta di strana simbiosi gravitazionale, mi è parso altrettanto meraviglioso del vedere i petali inghiottire golosamente il proprio ospite.

Ho pensato ai secoli che ci avrà impiegato la natura per arrivare a stipulare questa sottilissima contrattazione di pesi. Chissà quante generazioni di bombi hanno dovuto cimentarsi con imprevisti ruzzoloni, slittate di zampe e cilecche vegetal-coitali, prima di riuscire a stabilire il contrappeso perfetto che rendesse possibile questo piccolo miracolo di equilibrismo entomologico.


La controprova l’ho avuta immediatamente dopo. Una volta levatasi di mezzo la ponderosa eleganza del bombo, è venuto il turno di una piccola ape comune. Anche lei si è posata sul labbro inferiore, ma niente di particolare ne è derivato. Non essendo pesante a sufficienza, la cuginetta mingherlina del bombo si è dovuta accontentare di suggere molto più ordinariamente in superficie. D’accordo, sempre un bel vedere, ma niente di paragonabile all’immensa goduria insita nelle ben più teatrali gesta bombonesche.


E le coincidenze erano destinate a non fermarsi a quel punto, perché l’altra sera, riprendendo casualmente in mano la mia vecchia e cara edizione di poesie di Emily Dickinson, sono incappato in questi versi, ai quali non avevo mai fatto caso prima, e grazie ai quali ho scoperto che “bombo” in inglese si dice con una paroluzza dalla simpatia giustamente soppesata sulla familiarità del buffo ronzatore: bumblebee.

Some things that fly there be –
Birds – Hours – the Bumblebee –
Of these no elegy.

Some things that stay there be –
Grief – Hills – Eternity –
Nor this behooveth me –

There are that resting, rise.
Can I expound the skies?
How still the Riddle lies!

(c. 1859)

Vi son cose che volano –
Uccelli, ore, il bombo:
Non è per queste l’elegia.

Vi son cose che restano –
Il dolore, i monti, l’Eterno.
Nemmeno queste a me si addicono.

Altre sostano e sorgono.
Posso spiegare i cieli?
Com’è immoto l’Enigma!



domenica 8 maggio 2011

Madbank


La devo smettere di essere troppo buono, porca puttana!...ah, ciao ragazzi, scusate, ragionavo a voce alta e non mi ero accorto che eravate lì.
Dicevo: questa minchia di bontà certe volte è proprio una iattura. E pensare che non mi mancherebbe nemmeno il sostegno di fior fior di consiglieri. Non di rado lo stesso Lupo de Lupis in persona viene a farmi visita in sogno, per elargire preziosissimi ammaestramenti.

«..Dai retta ad un fesso, Gillipix…» suole ricordarmi il glorioso lupevole tanto buonino, «…io ci sono passato prima di te, il gioco non vale la candela. Alla fine me, mi prendevano per il culo persino alla mensa della Hanna & Barbera, durante le pause pranzo delle riprese sul set. Se fai tanto ad appiccicarti addosso il personaggio, non te lo schiodi più, è finita. E non dico soltanto Dick Dastardly o Napo Orsocapo…fossero stati solo loro. Invece no, mi beffeggiavano pure Ernesto Sparalesto, Svicolone e Magilla Gorilla. Piantala di fare il buono, Gillipix, non vorrai mica fare la mia fine, vero?…».

Caro Lupo de Lupis, se ti dessi retta una buona volta…Ma gli ammonimenti degli amici saggi, si sa, sono come una pioggerella sottile di fine settembre: gradita come sabbia fra le dita dei piedi, ma guai ad aprire l’ombrello, che è poco virile (uhm…come metafora, m’è uscita ‘na chiavica…).

Prendete un qualche pomeriggio fa, ad esempio. Avevo qualche ora libera e me la zonzavo sfaccendato per le strade cittadine, amministrando da provetto perdigiorno alcune badilate assortite di fattacci miei. Ad un certo punto, stagliata nettamente contro la trama dell’opus incertum disegnato sul selciato, intravedo già in lontananza un rettangolino di plastica chiara. L’oggetto misterioso è proprio sulla mia strada, per cui proseguo senza meno alla sua volta. Di man in mano che mi avvicino ed i dettagli si arricchiscono, la mia mente elabora responsi come il calcolatore interno di un cyborg sotto la sferza di ripetute inquadrature zoomate sempre più in dettaglio.

Zwiiing-gnek-gnek (suono del teleobiettivo che si fa sotto…), ipotesi uno: vecchio biglietto da visita usurato, abbandonato trionfalmente da individuo fermamente deciso a non ricevere più visita alcuna in vita sua, avendo egli recentemente abbracciato la fede luminosa dell’«Asocialismo reale»…

Zwiiing-gnek-gnek, ipotesi uno scartata. Ipotesi due: tesserino della videoteca «L’antro dell’allupato», incautamente smarrita da cliente troppo preso dal pregustare l’estasi di immaginarsi immerso in “campi di patate per sempre” («…Let me take you down, ‘cause I’m going to, potato fileds…»).

Zwiiing-gnek-gnek, ipotesi due scartata. Ipotesi tre: ma minchia, ecco cos’è! Una carta di credito! Oppure un bancomat!

Non vi stupisca la mia ignoranza in materia, non sono uomo di mondo e tanto meno ho fatto il militare a Cuneo. Avevo comunque arguito che si trattava di uno di quegli arnesi abbinabili a certi numerilli, all’uopo di procurarsi dindi freschi e sonanti.
Sleggiucchiando fra le mille sigle stampigliate sopra, cerco allora di capire a quale tipo di banca si possa far risalire la schedina in oggetto. Qui però mi si spalanca dinnanzi la selva oscura finanziaria, che lo diritto e tradizional conto corrente era smarrito. Ci sono su svariate cifre, dieci simboletti, tre o quattro loghi di famosi istituti succhiagrana, avvisi di spendibilità presso le filiali della «Rokko Sigfridean Bank of Seed», agevolazioni con la «Sturagonzi Express», convenzioni con la «American Pirla Slave Card».

C’è persino un avviso dai toni vagamente mafiosetti che, non bastasse già il mio Lupodelupismo inveterato a livelli abissali, mi procura una leggera sensazione di panico kafkiano. Non ricordo bene la dicitura esatta, ma in pratica, con quella frasetta buttata lì come se fosse casuale, mi fanno già sentire un potenziale ladro, ancor prima di aver nemmeno lontanamente pensato di poter fare un insano uso della tessera.

Fra le tante amenità impresse, alla fine scovo anche un numero verde e non sapendo bene cosa fare, mi decido a chiamare. Risponde una signorina, le spiego per sommi capi l’accaduto, ma nel giro di pochi scambi di battute, la voce femminea all’altro capo del filo inizia già ad irritarmi lievemente. La prima cosa è il tono. Mi aspettavo un po’ di gentilezza per un tizio che si appresta a restituire una cosa smarrita di quel valore, ma lei in pratica non sa dirmi niente di meglio che non ho fatto il numero giusto. Quello era il “servizio clienti”, eccheccacchio, mica cotica. E se proprio volevo, potevo magari recarmi dai carabinieri o dai vigili, lasciando loro quanto rinvenuto.

Fra gli infiniti difetti di un buono, c’è anche l’incapacità di rispondere col giusto tono sferzante, quando uno conversazione lo richieda. Così la telefonata si è chiusa lì e la frase giusta da dire mi è rimasta intrappolata fra denti e palato, senza la possibilità di volare libera e giusta alle orecchie di quella stonata centralinista.
«…Ma per la fava eccelsa di Minchiolano il Grande…» avrei dovuto dirle, «…questo sarà anche il “servizio clienti”, ma mi sai dire allora cos’era quello sbalestrato che non aveva niente di meglio da fare che seminare bancomat per la città, se non un vostro fottutissimo cliente?...».

Ma le sentenze giuste che servono, ahimè, mi sgorgano in cuore sempre a scoppio ritardato, per cui mi sono accontentato di riflettere su come la nostra società sia perlopiù composta da individui che fanno un lavoro del quale non gliene potrebbe fregare di meno. Compresa quella tignosa signorina, che avrà ricevuto la sua porzione ben delimitata di compitino professionale da svolgere e se ne guarda bene dallo sconfinare nei territori della libera decisione autonoma.

A quel punto, non sapendo come meglio proseguire la mia avventura di scopritore stradale di tessere da soldi, chiamo mio fratello in ufficio, per un suo parere. Va detto che nel frattempo, con non poca fatica, ero riuscito a desumere l’appartenenza bancaria del fatidico pezzetto plastico. Di certo l’istituto in questione sarà stato autorevole e con tutti i suoi crismi bancari al loro posto, inclusi due o tre sani scandali finanziari alle spalle, come si richiede oggi ai più prestigiosi e dinamici gruppi di raccattapila moderni.
Ma anche per la mia già accennata ignoranza, si trattava di un nome che non mi diceva un granché, fate conto che fosse una cosa tipo la «Cassa di Risparmio di Casalfavone in Cippadoro».

Con l’aiuto di mio fratello, vengo però a sapere che c’è giusto una filiale di quella banca poco lontana dalla zona di città in cui mi trovo. Mi ci reco subito senza esitazioni per consegnare l’ormai molesto tagliando pecunioforo, ma anche qui finisco per trovare un po' di pane secco per i miei denti di buono.

Dovete sapere che dietro ad ogni buono, si nasconde sempre anche gran parte di un subdolo affamato di vanagloria. Lasciatelo dire a me, che sono pratico del ramo. Un buono che si dica tale fino alla radice più profonda del midollo, possiede dentro di sé anche una malcelata dose di vanità. Il buono più duro e puro si macera perennemente in un dubbio: sono buono per far del bene agli altri, oppure per blandire il mio amor proprio auto-celebrandomi nella mia somma “buoninitudine”?

Fatto sta che entro nella filiale di quella banca aspettandomi quasi di essere accolto sul tappeto rosso da Emerson, Lake, Palmer e Fittipaldi, partiti in tromba con la «Fanfara dell'uomo comune», e invece mi rendo amaramente conto che mi tocca fare la fila come un bastardo qualsiasi.
Viene il mio turno e mentre mi sto appressando al bancone, squilla il telefono. Il cassiere solleva la cornetta, sento che blatera di smarrimenti, di codici segreti non lasciati in giro, di bloccaggi eventuali di tessere, e capisco al volo che all'altro capo del filo c'è quel gran simpaticone iper-scrupoloso del mio amico seminatore di bancomat.

Non lascio nemmeno finire la telefonata e sventaglio sotto al naso del cassiere il fatale tagliandino fonte di contante apprensioni, e come ricompensa, sento l'impiegato dire dentro l'apparecchio: «...ah, guarda, l'ha ritrovato un cliente...».

Ecco, penso, non solo poca soddisfazione, ma pure gli insulti adesso: “cliente” proprio non me lo aveva detto mai nessuno. Me ne esco quindi mestamente, mentre, ad onor del vero, il cassiere mi ringrazia con tutta la sua gentilezza, chiedendomi però anche, sempre raffigurandomi nella “sua” mente come “suo” cliente, se avessi per caso bisogno della cassa.
«...No grazie...» rispondo, ma fra me e me penso: “...ne avessi avuto bisogno davvero, non sarei un fottuto buono e mi sarei servito da solo...”.

Proseguendo poi la mia passeggiata per le strade cittadine e soppesando gli eventi appena intercorsi, meditavo blandi propositi di futuri accenni di cattiveria, così, tanto per cambiare una volta tanto. Ma proprio mentre sono intento in questi pensieri, m'imbatto in una nonnetta che spinge la carrozzina farcita con tanto di nipotino. Ci affrontiamo in una strettoia del marciapiede ed io prontamente mi faccio platealmente di lato, per lasciarli passare con agio. E così facendo, crolla involontariamente ed immediatamente dentro me ogni velleitario intento di malvagità future, mentre mi ritrovo ancora a riflettere: «...Caro buon vecchio Lupo de Lupis, c'hai sempre ragione te: proprio non se ne esce...».