lunedì 9 gennaio 2012

Un pomeriggio gualdrapputo


 
Chi passa abbastanza spesso da queste parti e perde qualche minuto a leggere, avrà ormai capito che ho un “forte” debole per il linguaggio turgido e rigoglioso, ridondante, straboccante, anche se volendo, e sforzandomi un po’, saprei scrivere in maniera più asciutta e stringata.

Non a caso, sono convinto che questo sia anche un po’ il principale “pregio-difetto” della mia prosa. Può piacere o fare schifo, ma è così che mi viene naturale e spontaneo scrivere. Ho discettato spesso intorno all’atto dello scrivere per come lo reputo io, ossia uno strumento fenomenale a disposizione di ciascuno per elevarsi a vette di libertà inaudita. Se tale è quindi l’unico obiettivo del mio scrivere, non avrebbe senso farlo altrimenti da come maggiormente mi aggrada. Addirittura, e vi sarete accorti anche di questo, quando non trovo le parole che ritengo adatte al concetto, all’emozione, alla sfumatura di realtà giusta da trasmettere al lettore, vuoi per carenza del vocabolario italico, vuoi, il più delle volte, per ignoranza personale, mi forgio da me stesso strampalati termini ritagliati su misura.

Ho avuto una conferma della mia predilezione per le parole rigonfie, sensuose e, spesso e volentieri, inventate, giusto qualche pomeriggio addietro. Col favore di queste giornate d’inverno mal camuffato, miti come la languida mammellona pendula di una burrosa matrona, quest’anno ho anticipato a dismisura la mia prima uscita stagionale sull’argine, per una passeggiata in bici di chilometraggio discreto. Rasentando della mia gommosa duplice presenza il verde impellicciamento posto a guarnire le pendici del manufatto fluviale, vellicavo dunque col pedale quei quattro ciuffi d’erbetta ante-smeraldina. Sotto le carezze pur sempre brinose di un venticello traverso, sbadigliavano quei riccioli erbosi il proprio stupore per l’ingannevole risveglio primevo così presto giunto, pacatamente protestando essi ciuffetti, nel medesimo tempo, alla volta dello sbilanciamento stagionale, a suon di battiti di loro ciglia, qua e là ancora giallognolamente chiazzate di cisposità vegetali.

Il frizzore eucaliptico dell’aria frigorifera tutt’attorno, filtrando pungente per lo spalancato accesso alle nari arrese, mi pneumava con vigoria l’antro polmonare, fatto per l’occasione caverna vasta di polari echi respiratori, immensi ed ultra-umani. Al tocco occasionale di un qualche polpastrello indagatore, la muscolatura delle cosce dichiarava intero il proprio sofferto godimento, tratto con avidità suggendo nutrimento cinetico direttamente dalle circolari movenze imposte con ineluttabile logica dalla legge pedalatoria. Addirittura, complici le sferzate di tramontana ibernizzante, nel mezzo esatto del cammin di nostro corpo, mi ritrovai per una rimpicciolita virilità oscura, che la diritta confidenza con le usate dimensioni era smarrita.

Mi trovavo grosso modo ancora allacciato a quella serica divagazione mentale, interpostasi ad un certo punto lungo il flessuoso nastro a fiocco del mio tempo, quando lo sguardo mi cade sul piccolo ricovero equino che s’incontra ad una certa altezza dell’escursione biciclica sull’argine. Quattro o cinque animali, reduci a loro volta da una salubre trottata, si beavano placidi sotto le attenzioni ristoratici delle due signore gerenti dell’animalesco albergo in questione. Un paio di quelle eleganti bestie si sottoponevano di buon grado alle sapienti ed amorevoli strigliate delle padrone, mentre gli altri individui della ridotta mandria attendevano pazientemente il proprio turno, guatando tutto in giro e spargendo qua e là le tipiche loro occhiate boscose, mentre rilasciavano dai possenti corpi una fumiggine aromatica d’intenso afrore cavallesco, le ampie froge interamente spalancate ad accogliere il mondo in respirata foggia.

E’ stato in quell’attimo preciso che l’epifania verbale ha preso possesso di me, commischiandosi quale linfa semantica al liquore più intimo del mio essere linguistico. Affondando nella piena palude della mia suprema insipienza ippica, mi sono messo a recitare internamente una sorta di tiritera composta da termini arcani semi-travisati, uditi in chissà quale piega della lontananza d’un tempo ormai svaporato con lo scolorimento degli anni. «…Quello è senza dubbio un roano, l’altro uno stallone bajo, e ancora là, ecco la maestosa giumenta dalla rilucente livrea morellata…» pensavo con vigore, sicuramente centrando meno la realtà che se avessi assegnato alle medesime bestie tonalità a pois e gradazioni cromatiche psichedeliche.

Ma poi ancora, notando alcuni dei cavalli in attesa della razione di coccole pomeridiana, mansuetamente supini alla protezione offerta lungo tutto il dorso da un qualche rustico panno, ecco che sono stato illuminato dal termine cruciale: «…Gualdrapputo!...». Esattamente lì, e in nessun altro anfratto linguistico diverso da lì, risiedeva il senso più fondamentale della cavallità trasudante dagli eleganti corpi: nell’essere essi profondamente ed intensamente “gualdrapputi”!!!

«…Gualdrapputo!...» mi sono messo allora a dire sottovoce a tutti gli oggetti, cose più o meno animate, che incontravo seguitando il mio pedalare. «…Gualdrapputo!...» dicevo al boschetto di pioppi, «…gualdrapputo!...» al misterioso casolare abbandonato in golena, «…gualdrapputo!...» al fatato sottobosco di felci ospite ad ogni ora del radente incanto di una luce che immancabilmente pare provenire da un “nessun dove” solare o lunare. «…E gualdrapputa anche a te!...» piccola lepre delle familiari steppe, che sempre fuggi in lontananza, ma mai riesci a sottrarti alla tua ineluttabile “gualdrapputitudine”.

La parola mi usciva pastosa dalla bocca, come un bacio tumido e salivoso concesso ed al contempo carpito all’atmosfera tutta con coinvolgimento e fervore estremi, assaporando in modo particolare il rugiadoso aroma di quella doppia “ppu”, sputata di gusto contro il nucleo pieno dell’inutilità concettuale più limpida.

«…Gualdrapputo, gualdrapputo, gualdrapputo!...» non mi stancavo di reiterare quel mio mantra rurale di pura invenzione. E non ho smesso fino a quando, rientrando a casa e constatando l’ulteriore riduzione dimensionale cagionata dai più intimi intirizzimenti termici, non mi sono sentito sufficientemente fiero della mia spropositata stoltezza esistenziale.


5 commenti:

Vanessa Valentine ha detto...

:))))))
Mio joyciano Gilli, che pezzo!
Words fail me.:)))))))
Non ti stupirò se ti dico, a mezza bocca, che certe parole, sensuose e inventate, vado avanti a pronunciarle tutto il mattino fino al mezzodì o sino al vespro.
A volte le metto anche in musica e poi non riesco più a ricantarle, dimenticandole.
Ed è la loro bellezza più piena, quella delle cose che vivono poco.
Ed evviva anche questa falsa primavera in anticipo.:)))
Faccio orrenda pubblicità al baretto di Poultryville, gestito da un ragazzo cinese, è uscito con spotty linbar...eheh...:)))))

Gillipixel ha detto...

@->Vale: eheheehe :-) siamo due allegri picchiatelli linguistici, Vale :-) la bellezza delle parole è proprio indicibile, a volte :-) Io, più o meno, sono sempre stato così, mi sono sempre inventanto un mio vocabolario privato con cui giocare e giocare e giocare...un Lego di sillabe da comporre a mio piacimento :-)

Fantastici sono quegli autori che usano il linguaggio in modo sapiente e lussureggiante...in questi giorni, con le novelle di Pirandello (tematiche un po' cupe a parte :-) mi sto faccendo una scorpacciata di bellezza verbale :-)

Evviva il bar di Lin, bagigi e splitz a plofusione :-)

Bacini mollybloomiani :-)

Anonimo ha detto...

Ma tu sei un geniostro dell'accademia della crusca !!

ross ha detto...

SONO IO

Gillipixel ha detto...

@->Ross: se ho capito bene, Ross, e il commento "binato" era tuo :-) ti rispondo: beh, non proprio della crusca :-) Una volta il mio amico Yoss mi disse che ero il Derrida della verza...ecco, quello me lo sento più calzare a mia misura :-)

Grazie, sempre lusingato dei tuoi commenti :-)

Bacini gualdrapputi :-)