venerdì 30 marzo 2012

Translinguismi rintronali


Uno spettro si aggira nei meandri dell’ambiente pubblicitario: lo spettro del pacchianismo!

Sarà che sono un ingenuo e mi figuro sempre un mondo ipotetico mio, così come presumibilmente e a rigor di logica dovrebbe grosso modo funzionare. Di fatto, immaginando di essere io un pubblicitario, il messaggio verso cui mi indirizzerei cercherebbe di privilegiare l’eleganza, la classe, l’evocazione di un senso di fiducia, di affidabilità, di prestigio, di bellezza, di sicurezza, di solidità, la messa in risalto di prerogative giocose, mirate al benessere di chi acquista, al suo divertimento, al comfort, e così via. Di tutto questo, un po’. Oppure di volta in volta, ciascuno di questi aspetti messo più in risalto di altri, a seconda del prodotto da reclamizzare.

Invece no.

Pare che in molti casi, affidarsi ancora allo “sboronismo”, al “ciòca-piattesimo” (dalla nota espressione dialettale nordica “ciòca-piatti”, ossia “sbatti-piatti”, detto di tizio che, facendo una gran confusione caciaronesca, conclude pochissimo e con molta poca sostanza), oppure consegnarsi anima e corpo al più bieco “mostra-culismo macachese” (tendenza esistenziale di chi preferisce la chiassosa apparenza ad una dignitosa sostanza, nell’immagine metaforicamente mutuata dal comportamento esibizionistico dei macachi), pare insomma che tutte queste strambe propensioni continuino ad essere reputate strategie comunicative vincenti.

In particolare, un sottoambito del pacchianismo esageratamente eclatante che non sono mai riuscito a capire e che continua ad essere mangiato come il pane dai creativi spottaroli, è il “rintronamento translinguistico”. Questo fenomeno si fonda sulla pretesa secondo la quale una certa frase di una certa lingua (nella fattispecie, lo slogan dello spot), se pronunciata con la distorsione tipica di chi non è parlante nativo di quell’idioma, oppure addirittura non ne è parlante affatto, suonerebbe estremamente trendy, cool, fashion, e tutti questi altri aggettivi di ‘sta minchia.

Eppure la lezione di Alberto Sordi è ormai antica, ma evidentemente non ancora assorbita a sufficienza, nella sua pienezza di risvolti ed ammonimenti culturali. Non siamo qui a sindacare sulla maggiore o minore venustà di una lingua rispetto ad un’altra. Assumiamo come postulato che ogni lingua sia bella di per sé, in virtù delle sue caratteristiche intrinseche, inimitabili ed inconfondibili. Affascinante è l’italiano nel suo modo specifico, così come lo sono l’inglese, il francese, lo spagnolo, l’inuit, il dialetto della Bassa Busonia, e tutte le altre lingue insomma, più o meno diffuse o note, vive o morte che siano.

Il punto non sta dunque nel confronto tra lingue, ma nel passaggio improprio da una lingua all’altra, nella commistione sgangherata di pronunce.

Il mai sufficientemente lodato Nando Mericoni (l’«americano a Roma» di Alberto Sordi, per l’appunto) ce lo insegnò già decenni fa: un italiano che cerca di parlare americano senza averne le competenze e l’orecchio necessari, finisce per suonare come un giulivo coglionazzo. Tutt’al più potrà risultare un simpaticone un po’ sbalestrato, un vecchio zio rimbambito, ma mai in ogni caso una persona dalla quale compreresti qualcosa. Lo stesso succede ovviamente anche in senso contrario, nel caso di un anglofono che si cimenti con la parola di Dante e di Manzoni: stesso effetto, ben che vada, da caro vecchio etilista della porta accanto, stesso buffonesco boomerang espressivo rimandato nei denti.

Non fosse bastato il supremo ammaestramento del grande Albertone Sordi, più recentemente, sempre dall’ambito comico, ci è giunto un altro notevole monito riguardo alla ridicolaggine sempre in agguato nell’incauto “travaso idiomatico” e ai rischi ad esso connessi di scivolamento nel pieno di un’esterofilia fra le più boccalone. Mi riferisco all’esilarante quanto amara saga dei “Perego’s”, nella quale il sempre geniale Antonio Albanese interpreta il ruolo di un piccolo-medio imprenditore genericamente “para-lombardo”, uno di quelli duri e puri che “…mio nonno c’aveva l’officina, mio babbo ha fatto il capannone, io un capannone più grande, e mio figlio si droga…”.

Proprio quello stesso figlio (interpretato da Nicola Rignanese), non si sa se meglio definibile “degenere” oppure “fatto degenerare” sotto quella valanga di amore imprenditoriale, che sfoggia la più pacchiana distorsione esterofila, quando ad esempio, entrando in casa, saluta i genitori con la sua classica frase fashion «…Hi mamy, hi daddy…by Clavin Klein…», ricevendo come automatica risposta, ogni volta, l’immutato ritornello: «…Ma va a dà via’l cül, drugà!…».



Tra l’altro, questo altro sommo insegnamento comico, tirando in ballo il mondo della moda, si aggancia perfettamente al “dunque” a cui volevo arrivare oggi. Dopo aver sentito alcune stagioni fa Dustin Hoffman pubblicizzare un panettone magnificandone le bontà col suo perfetto italiano da ubriacone molesto, pensavo si fosse raggiunta l'apoteosi del “rintronamento translinguistico”. E invece sempre nuove chicche s'annidano dietro l'angolo.

Sono costretto a fare il nome dell'articolo in questione, altrimenti non si capirebbe cosa voglio dire, ma preciso che non ho nulla contro di esso. Le mie considerazioni sono rivolte esclusivamente alla bislaccheria pubblicitaria che lo accompagna. Si tratta di un profumo di Roberto Cavalli. Amo il mondo degli odori e dei profumi, e anche se non ne faccio uso personalmente, quando ho l'occasione di averne sottomano alcune boccette svariate, mi diverto un mondo a sniffare all'impazzata il piccolo imbocco degli spruzzatori, beandomi le nari coi vari effluvi. Il mestiere del profumiere deve essere uno dei più affascinanti immaginabili, lo vedo come una missione capace di portare gioia alla gente, allietandola con mille fragranze che sanno parlare direttamente ad una delle dimensioni recettive più sensibili dell'individuo.

In particolare, questo profumo non l'ho annusato, ma sono certo che sarà buonissimo. Per di più, ha il pregio ulteriore di portare un bel nome “italicissimo”, così sonoramente elegante, un giusto equilibrio fra lunghezza sillabica e dosata distribuzione di consonanti e vocali: “Roberto Cavalli – profumo”. Quale migliore modo di suggellare una reclame, che pronunciando queste tre semplici, italiche, pure parole, di per sé stesse già un perfetto slogan bello e pronto?

Nossignore invece, niente di tutto ciò che sembrerebbe più naturale. Questi pubblicitari, con a disposizione l'occasione di una siffatta purezza linguistica originaria, non l'hanno sfruttata. Si sono invece ostinati, hanno insistito nel loro balordo intento di “rintronatori translinguistici”, si sono incaponiti ciecamente, chiudendo lo spot con la solita voce cavernosa e virioloide, stile “tris di testicoli”, che ruvidamente sussurra: “...Robbbéudddo Kkkhhhvvvàli...”. E poi dopo non si lamentino se al povero spettatore, in circostanze simili, gli scappa di chiosare fra sé e sé, a labbra socchiuse: «...Ma va a dà via’l cül, drugà!…».


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