lunedì 2 aprile 2012

Clà gran pàrtida ad Vimblèdòn



Quando esce una novità tecnologica, per un po’ essa funziona anche da calamita sociale. 

In un primo momento, vuoi per ragioni economiche, vuoi per impreparazione e reverenziale timore tecnico, in pochi se la possono permettere. Le contraddittorie ragioni dello status symbol (hai in casa l’ultima diavoleria alla moda e non ci fai schiattare un po’ d’invidia gli amici?), unite ad altre dinamiche, fanno poi il resto e scatta la molla della condivisione.

La cosa curiosa sta nel fatto che con la successiva diffusione capillare, la novità tecnologica esaurisce la propria funzione socializzante e s’incammina esattamente nella direzione opposta, ossia verso un’accentuazione del godimento privato.

Chiamerei questo fenomeno «effetto “Lascia o raddoppia”». 

Sappiamo tutti che la tv, alle sue prime apparizioni, funzionò per un po’ di tempo come veicolo di intensificazione sociale, inizialmente proprio nel nome del popolarissimo quiz di Mike Bongiorno, che riuniva famiglie diverse di amici sotto uno stesso tetto, o piccole platee festose nei bar dotati del nuovo focolare catodico. Finito tuttavia il primo eroico periodo pionieristico, lo strumento tecnologico prolifica a dismisura, invade tutti sino a divenire una presenza scontata e si tramuta in uno stimolatore di rinnovata individualità.

L’«effetto “Lascia o raddoppia”» è capitato e continuerà a capitare soprattutto in relazione a novità tecnologiche che hanno a che vedere con gli scambi comunicativi. E’ capitato anche prima di “Lascia o raddoppia”, col telegrafo o col telefono ad esempio (un luogo dotato di apparecchio era naturalmente visto come punto di riferimento comunitario), ed è capitato dopo, con internet (i primi “internet-point” sono stati per me ed i miei amici un prolungamento planetario del piacere di stare assieme in un bar) e così via.

Tanto per dire: solamente qualche sera fa, la magia del “camino tecnologico” si è ripetuta in compagnia di un amico, fra di noi unico possessore per il momento di I-pad, sbocconcellando hamburger da Mac Donald, fra una ricerca su google e l’altra.

Oggi però, alla faccia di tutte le introduzioni prese su alla larga, era di tennis che volevo parlare. Cosa minchia c’entri il tennis con l’«effetto “Lascia o raddoppia”» lo scoprirete solo leggendo. 

Era il pomeriggio del 6 luglio 1980. Allora non lo sapevo, ma proprio quella giornata stava per segnare il termine di una certa “infanzia epocale”. Si sarebbe portata via un ultimo strascico di «effetto “Lascia o raddoppia”» propriamente riferito alla tv e riapparso in quell’occasione sottoforma di prezioso ricorso storico. Ma si sarebbe portata con sé anche la mia eroica idea del tennis di allora, insieme forse ad una parte della mia infanzia stessa.

Quel pomeriggio si giocava la finale del torneo di Wimbledon e l’erbetta del campo centrale, ormai tradizionalmente lisa nelle posizioni di battuta dopo circa un mese di gare, sarebbe stata calpestata da due eterni semidei della racchetta: John McEnroe e Bjorn Borg. Coincidenza volle che la partita più leggendaria della storia del tennis capitasse nel momento della mia massima infatuazione per questo sport.

A quei tempi, Gillipixiland sembrava essersi tramutata in un sobborgo inglese, o in una sorta di Flushing Meadow basso-padana, e non c’era ragazzino che non alternasse con spasmodica frequenza l’impugnatura della racchetta a quella di un altro manico personale, capace anch’esso di mettere parecchio alla prova le acerbe energie agonistiche tipiche di quelle fasi della vita.

Oggi non saprei dirvi che differenza passa tra Rafa Nadal e Paco Rabanne, e nemmeno capisco bene, quando sento pronunciare la parola Federer, se s’intenda parlare di un corriere espresso o di qualcosa che attiene al mondo dello sport. 

Ma allora sciorinavo i nomi dei tennisti come fossero le formule magiche di un mantra eroico: Vitas Gerulaitis, Guillermo Vilas, Jimmy Connors, Ilie Nastase, Roscoe Tanner, la coppia di doppio McNamara-McNamee, Boris Becker, Ivan Lendl, Martina Navratilova, Arancia Sanchez. Una serie di suoni che mi esaltavano, spronandomi a catapultarmi di corsa al campetto di cemento rosso, con le mie 4 palline spelacchiate e la racchetta lignea di ottava mano, ritrovata nella spazzatura dai miei zii in città, e tosto riciclata ad usi sportivi campagnoleschi.

Il campetto apparteneva ad una ditta che per un lungo periodo concesse a tutti di giocarci senza versare una lira, proletarizzando in questo modo come per incanto uno sport ritenuto in ogni altra parte del mondo faccenda d’elite, di pertinenza esclusiva dei club privati più “merdoneschi”. I pomeriggi interminabili trascorsi su quel campetto o appena a lato dei suoi bordi, finivano per diventare delle lunghe maratone di amicizia ribadita, di giocosità condivisa su tutti i piani, prima di tutto quello dello spallettare a racchettate, ma poi sfociando anche nelle chiacchiere infinite senza scopo e senza meta.

In questo clima, venne a cadere l’appuntamento del 6 luglio 1980. 

Faceva caldo (o almeno così mi pare di ricordare) e ovviamente la tele a casa ormai chiunque ce l’aveva. Ma in una quindicina preferimmo ammassarci nella risicata saletta tv del “Bar sport”, irresistibilmente attratti dal rinnovato fascino di un «effetto “Lascia o raddoppia”» ormai fuori epoca massima. La platea era composta dall’intera gamma del più variegato “parco bestie” di animali da bar assortiti. 

C’era il vitellone navigato, con il pacchetto di Muratti tatticamente incastonato nel corto calzino bianco, e più ore di bancone da bar sul groppone lui, che Stakanov a forare miniere. C’era qualche sbarbatello come me, allora ancora attestato sugli ultimi gradini della gerarchia sociale degli elementi da bar. C’era soprattutto il fior fiore dei tuttologi locali, particolarmente e multi-disciplinarmente ferrati in materie onni-sportive, figure indispensabili a concimare la latifondistica coltura di cazzate che quasi spontaneamente fiorisce nei terreni umani di questo tipo. 

Eravamo in tanti e diversi, insomma, ma nessuno sapeva ancora, nell’atto di posare le chiappe sulle scomode sedie del “Bar sport”, che si sarebbe trattato di un pomeriggio a suo modo memorabile, da raccontare poi dopo ancora a distanza di anni. Quella partita, lo sanno praticamente tutti, passò alla storia del tennis come una delle più belle di sempre. Durò oltre tre ore, Borg e McEnroe diedero il meglio di sé, senza risparmiare nessun tipo di energia, di eroismo tecnico, di invenzione spettacolare, e senza lesinare gesti di bellezza atletica di ogni tipo. 

Fondersi a quell’evento in compagnia della variegata e cara umanità in cui ero immerso quel pomeriggio, fu un’esperienza nell’esperienza, un viaggio nella dimensione dello sport condiviso nel modo più popolaresco e genuino. Di man in mano che i games e poi i set si accumulavano, la luce verdolina posata dal teleschermo sulla nebbia delle sigarette di cui l’angusta saletta era ormai satura, andava acquistando tonalità sempre più allucinatorie. Il match s’intensificava nei suoi tratti leggendari e di pari passo la chiassosa atmosfera nella saletta si andava intridendo di lazzi d’esultanza, dialettali battutacce goliardiche, gioiose dissertazioni dettate dallo stupore e dalla contentezza di stare vivendo insieme la libertà pura di quel pomeriggio sportivo, nel pieno fulgore del più assoluto “perdigiornismo”. Fra goccetti di bianco, bicchieri di spuma e scartocciamenti di boeri (i cioccolatini dall’anima liquorosa, forieri di prolifiche ripetizioni omaggio), tirammo a sera, abbandonando le sedie solo dopo l’ultima palla dello storico tie-break conclusivo, che non pareva finire mai.

Un’altra cosa che ancora non sapevamo, rinvenendo alla luce naturale da quella fumeria d’oppio sportivo in quel tardo pomeriggio del 6 luglio 1980 e rincasando lieti della bella giornata trascorsa insieme, era che entro non molti anni il tennis sul campetto sarebbe finito con scarsa gloria, patendo il misero destino di molte cose gratuite, mentre in seguito si sarebbe pagato anche per vederlo in tv. 

Ma di lì a poco sarebbero venuti i tempi dei tennisti robotizzati, dei match giocati per lo più sulla potenza da fondo campo, sugli “ace” in battuta, sulla tensione delle corde, e a nessuno di noi, fini degustatori di estetica sportiva distillata dalla gratuità da bar più limpida, gliene sarebbe fregato più niente di una roba del genere.





2 commenti:

ross ha detto...

Che dire.Ognuno è solo davanti alla propria t.v, p.c.ecc..ecc ?

Gillipixel ha detto...

@->Ross: ed è subito sera? :-) ma quella volta venne sera lentamente, come accade ogni volta che il cameratismo favomunitesco si esprime nelle sue forme migliori...sono rare, ma a volte succedono :-)

Bacini fifteen all :-)