martedì 10 aprile 2012

Curiosare è vedere. Vedere è comporre. Comporre è porsi in armonia


Cari amici viandanti per pensieri, già in diverse occasioni ho cercato di addentrarmi insieme a voi fra le fresche e misteriose frasche dell’enigmatico mondo dell’arte. Fra le cento-e-passa-mila definizioni che si potrebbero formulare per cercare di circoscrivere il senso più intimo del fenomeno artistico, oggi ve ne propongo una molto sintetica, quasi tascabile: l’arte è il tentativo di far affiorare l’invisibile dall’infinito repertorio del visibile.

Il vantaggio di questa definizione, a mio avviso, sta nella sua validità sovra-storica e trans-epocale. Potrete prendere in considerazione gli artisti fra loro più lontani nel tempo e nello spazio, da Fidia a Picasso, da Piero della Francesca a Munch, da Edward Hopper a Pipilotti Rist (non me la sono inventata, esiste davvero: è una simpatica mattacchiona artistica elvetica), potrete far riferimento ad ogni stile, tecnica, corrente, scuola, tendenza, e così via, ma alla fine il risultato non cambierà: la definizione rimarrà valida.

Cosa s’intende con «visibile» e cosa invece con «invisibile»? Il «visibile» è la totalità del materiale percettivo che ci investe in qualità di esseri sensibili. L’«invisibile» è invece costituito dai significati che ci sembra di cogliere o che ci sforziamo di attribuire al «visibile», è la “logica umana” entro cui incaselliamo i fenomeni al fine di poterci muovere in mezzo ad essi.

Si può affermare che il «visibile» abbia un’origine oggettiva (come dato di fatto reale, “vero di per sé”), mentre l’«invisibile» sia sempre un prodotto dell’interpretazione dell’uomo, una creazione della mente e del sentimento? Questa è una delle questioni capitali intorno alla quale la filosofia si dibatte da secoli e non sarò certo io a dirimerla oggi.

Indipendentemente da dove si posizioni il confine tra “dato oggettivo” ed “interpretazione”, sta di fatto che la nostra realtà di umani senzienti funziona così: il mondo ci invia continuamente un’infinità di stimoli, mentre la nostra sensibilità umana si dà da fare per codificare quella porzione di “segni” che è in grado di decifrare e che si rivelano utili ai propri scopi esistenziali. Un simile “codice di segni” varia per gradi di complessità, a seconda dello scopo esistenziale in gioco: di base, può essere connesso alla pura sopravvivenza (questo compete anche alle piante e agli animali: anche essi, a loro modo, interpretano i segni del mondo per mantenersi in vita), passando poi via via attraverso interpretazioni sempre più raffinate, sino a raggiungere le finalità più sublimate che hanno quasi sempre a che vedere con la ricerca del “Bello”, della “verità insita nella bellezza”.



Le vette della bellezza vanno ricercate molto spesso ad altitudini vertiginose. E solamente un occhio interpretativo particolarmente predisposto è in grado di spingersi fin lassù. E’ questo che sa fare l’occhio dell’artista: interpreta i segni del mondo ad altissimi livelli, stanando significati nascosti e molto ardui da decodificare per la sensibilità comune dei più. Per questo motivo, dicevo prima che la definizione citata è un sempreverde delle definizioni: svelare l’arcano nei segni del mondo è sempre stato compito degli artisti e sempre lo sarà, al di là di tutti gli altri scopi accessori intervenuti nelle diverse epoche (intenti celebrativi, ideologici, teologici, agiografici, e così via).

Da questa definizione, si può dedurre un criterio molto semplice, ma efficace, che ci faccia da guida ogni volta che ci ritroviamo a considerare un’opera d’arte. Basterà domandarsi: qual è la porzione di «invisibile» che l’artista è riuscito a far affiorare con la sua opera? La risposta poi non risulterà mai altrettanto agevole, ma sarà ad ogni modo un buon punto da cui partire.

Tanto più che a mio avviso esiste un modo facilmente disponibile a chiunque per poter esercitare, seppure a livelli iper-amatoriali e principianteschi, una minima sensibilità nel cavar fuori porzioni d’«invisibile» dal «visibile». Questo strumento è la fotografia (ed in particolare quella digitale). Non sto parlando di diventare artisti della fotocamera, virtuosi dell’immagine scattata, né tanto meno sto millantando sgangherate pretese di essere io stesso in grado di sfiorare quei sublimati regni espressivi, a me purtroppo interdetti.

Parlo invece dell’umile e minimale porsi di fronte alla questione dell’esecuzione di una foto. Anche il fotografo fra i più squinternati (categoria entro la quale fieramente mi classifico), per quanto risicate siano le sue nozioni tecniche, ogni volta che esegue uno scatto, si deve confrontare con il problema di interpretare una porzione di realtà. Non fosse altro per il banalissimo fatto che deve scegliere un’inquadratura, ossia discriminare cosa far vedere da cosa escludere.



La logica stessa del fotografare, per quanto uno sia infimamente foto-cagnevole, non concede di sottrarsi al compito di cavar fuori porzioni d’«invisibile» dal «visibile». Quel “taglio” del mondo dato dalla specifica inquadratura scelta, prima di quello scatto (per quanto brutto e malfatto), non esisteva. Da quel gradino minimale e brutale, verso le quote più elevate della scala di raffinazione, tutto è migliorabile e perfettibile. Dall’originario e fondante atto di tagliare fuori la parte di mondo che non c’interessa con la nostra inquadratura, si passa a sempre più sottili considerazioni dei soggetti che si vogliono fare entrare nel campo di visuale, sino alla ricerca di strutture di significati visivi sempre più nobilitati, come la ricerca di particolari equilibri o contrasti di luce, di colori, di forme, e così via. L’inquadratura è il gesto elementare, il nucleo originario “monocellulare” imprescindibile, a partire dal quale i significati dell’atto di fare fotografie possono essere vieppiù incrementati in quanto a complessità e profondità di implicazioni, sino a dare vita ad un “organismo fotografico” molto articolato.

I risultati eccelsi, alla fine, saranno prerogativa soltanto di pochi eletti, ascrivibili nella ristretta cerchia del “cliccatori artistici”. Ma i fondamenti di base del meccanismo sono accessibili a tutti. Quello che interessa qui non è un invito a diventare artisti affermati, ma è sottolineare come l’atto di scattare foto rappresenti un ottimo strumento di auto-educazione al senso della bellezza. Stimola ad essere curiosi, ad osservare le cose con più attenzione, per cogliere strutture compositive non banali. E da qui spinge a portare alla luce costruzioni armoniche di forme altrimenti destinate a scorrere “invisibilmente” nell’anonimato indistinto del mare magnum degli impulsi “visibili”.

In più, tutto questo, oltre ad essere fonte di dilettevole miglioramento della propria sensibilità formale, può fornire buoni argomenti di confronto con l’arte in generale, consentendoci di dire qualcosa di nostro di fronte a qualsivoglia opera, di qualsiasi epoca ed artista.


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