giovedì 7 giugno 2012

Binario!!! Lungo ed erotario…




«…educazione significa 
arricchire le cose di significati…».
John Dewey

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Come forse alcuni di voi già sanno, di tanto in tanto mi diletto a dare qualche sferzata agli usi improvvidi del linguaggio e delle parole, che nelle più svariate sedi vengono maldestramente e perlopiù presuntuosamente sperimentati. Una simile pratica non mi è suggerita tanto dalla pretesa di sfoggiare dosi massicce di “saputellismo” applicato. Né tanto meno lo faccio per millantare chissà quale superiorità linguistica che di fatto non posseggo.

Gli errori linguistici fatti in buona fede, l’uso delle parole distorto in misura ingenua, alla fin fine mi stanno anche simpatici. Eccezion fatta forse per alcuni grandi esperti o per chi tratta le parole in modo assolutamente professionale, chiunque può incappare in questo tipo di sviste o di omissioni conoscitive: l’onniscienza linguistica è una chimera per tutti e probabilmente nessuno la possiederà mai in forma definitiva.

Quello che non mi piace invece è la pretenziosità di chi usa le parole al di sopra delle proprie possibilità, di chi non commisura l’utilizzo della lingua alla giusta dose di umiltà che compete al proprio livello culturale. Uno dei paradigmi di questo uso fastidioso della lingua si riassume nell’espressione “piuttosto che”, usata in senso “alternativo” anziché “esclusivo”, come sarebbe corretto, e da me già stigmatizzata a dovere in altre occasioni. Se tra due termini frappongo l’espressione “piuttosto che”, in italiano intendo che preferisco la prima cosa menzionata alla seconda. Ad esempio se dico: «…a questo punto, preferirei mangiare una mela piuttosto che una pera…», intendo scartare la pera come frutto conclusivo del pranzo, e non che l’una o l’altra mi vanno ugualmente bene (come vorrebbe invece l’odioso uso stravolto che dell’espressione viene fatto).

Sul fronte opposto, ho sempre visto con occhio bonario certi strafalcioni scaturiti dall’uso promiscuo di dialetto ed italiano. Anzi, questi possono essere anche divertenti e sintomo di una fertilità linguistica tutta da prendere in considerazione, perché dietro di sé reca sempre nascosti taluni aspetti d’ingenuità creativa.

Una di queste espressioni derivate dalla bislacca con-fusione italico-dialettale, che mi ha sempre regalato un sorriso di stupore linguistico, nasce dall’uso “traslatorio” dell’articolo, per nominare uno strumento della modernità: la radio. Fin da quando ero piccolo, ricordo di aver sentito nominare spesso, soprattutto dagli anziani perlopiù mono-parlanti vernacolari, l’apparecchio ricevente delle omonime onde con la parola “aradio”.

E’ buffo e significativo ad un tempo che questo fenomeno di distorsione espressiva si sia verificato con un oggetto non facente parte della tradizione culturale antica e come tale non ancora catalogato fra gli oggetti linguistici solidamente riconosciuti. Nemmeno allo scemo più incolto del villaggio sarebbe mai venuto in mente, ad esempio, di dire “la ratro”: un aratro sapevano benissimo tutti cosa fosse.

Nel caso della radio, il trasferimento della “a” dell’articolo sulla prima “punta” della parola avveniva per la non conoscenza del termine per iscritto e forse anche per comodità sonora: “l’aradio” suonava forse più naturale di “la radio”. A ben pensarci, la parola “radio”, rimanendo a livello di pronuncia, di espressione orale, sembra proprio calamitare verso di sé la “a” del suo articolo.

 Il bello di questo errore poi stava nel fatto che esso rimaneva subdolamente camuffato nelle forme parlate, perché il suono effettivo risultante era pur sempre “laradio”, sia che s’intendesse “la radio” oppure “l’aradio”. Ed il divertimento stava in quelle occasioni rare in cui il parlante dialettale era costretto a citare l’apparecchio senza il supporto dell’articolo, oppure magari al plurale (“le aradio”, caso però piuttosto desueto), sbugiardandosi a quel punto nel pieno del proprio guado “strafalciante”.

Un po’ sulla scia di queste reminiscenze fanciullesco-lessicali, nel dormiveglia di una delle scorse mattine (periodo della giornata assai foriero di deformazioni ludico-espressive), mi è venuto in mente un gioco di “travasi vocalici” simile a quello innescato con “l’aradio” dei bei tempi andati. Da questo giochetto è poi scaturito un curioso neologismo, al quale mi sono divertito ad assegnare possibili significati.

Non so come mai stavo pensando a “le rotaie” (nel semisonno le parole si parlano da sole, ci avete mai fatto caso?), quando tutto d’un tratto l’abbinata “articolo più parola” mi si è mutata in “l’erotaie”, o “le erotaie”, vedendo scivolare la vocale dell’articolo sull’inizio del termine stesso, incerta tra l’elisione ed il raddoppio. Per completare il gioco (e senza negare una piccola forzatura grammaticale d’origine, a dirla tutta…), sono passato poi a considerare la paroletta neonata al singolare, “l’erotaia”, e mi è parsa ancor più efficacemente densa di significati potenziali.

In fondo, molto del senso stesso di tutta la nostra vita consiste in un cammino continuo effettuato lungo un’erotaia. Eros, in tutte le sue declinazioni e sfumature (dal piano spirituale sino ai livelli più carnali), è l’energia (“le nergia”?...va beh, ora non esageriamo…) vitale più intensa con la quale ci ritroviamo a fare i conti nel corso di ogni età. Ce lo insegnavano già gli antichi greci e poi i romani, con una schiera di déi olimpici addetti all’argomento, da Afrodite al figliolo Eros, da Priapo sino alle ninfe, coi fauni e i satiri, ed altre entità più piccole del gran parentado erotico.

Il concetto, abbinato all’idea di rotaia, s’invera ancor di più nel fior di conio della mia nuova buffa parola, caricandosi anche di risvolti schopehaueriani: la forza di eros (che il filosofo tedesco interpretava come “volontà della specie di auto-perpetuarsi”, travalicando di fatto le volontà individuali) permette all’uomo una libertà di movimento esistenziale molto simile a quella concessa da un binario.

Con Freud abbiamo poi saputo che ogni deragliamento da questo tracciato umanamente pressoché imprescindibile, può essere causa di guai notevoli, per cui è sempre consigliato cercare di mantenersi sulla linea dettata dal percorso ferrato che l’erotaia ci indica, sfruttando magari l’occasione offerta da qualche scambio provvidenziale, la distrazione di qualche stazione particolarmente accogliente, ma in ogni caso scorrendo con le ruote ben saldamente ancorate alla lunghissima doppia barra d’acciaio amoroso.

Per cui, cari amici viandanti per pensieri, d’ora in avanti, quando vi sentirete attratti da una persona, invece di sfoderare le antiche ed ormai usurate formule seduttive, perché non provate con un più aggiornato: «…Chiedo scusa: mi concederebbe il transito sulla sua erotaia?...».

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