sabato 27 ottobre 2012

Er mejo fico der tecno-bigoncio


Il modo di fare cinema sembra cambiare molto più rapidamente rispetto ai propri contenuti, che non rispetto alle tecniche utilizzate. I tipi di inquadratura, i montaggi delle sequenze, l’uso della luce e aspetti simili, tendono ad apparirci ormai come appartenenti ad un repertorio consolidato, verrebbe quasi da dire ad un vocabolario noto. Mentre i significati espressi attraverso le storie narrate sembrano aggiornarsi maggiormente nel tempo, tenendosi al passo con le parallele modificazioni della cultura e della società.

Ciò che sembra, tuttavia, non è sempre così scontato. Spesso si tratta di variazioni contenutistiche ben camuffate, che sotto un apparente strato di novità, fanno ricorso a consolidati trucchetti già ben noti ai nostri nonni cineasti.

E’ il caso del buon vecchio espediente del MacGuffin, già teorizzato e più volte applicato da grandi registi del passato, come ad esempio, un nome per tutti, Alfred Hitchcock. Di questo escamotage filmico-narrativo parlai già diffusamente in altra occasione, ma ad uso di chi volesse evitare di sbarbarsi di nuovo il mio antico scrittino, riassumo per sommi capi. Il MacGuffin (italianizzato e parodiato da Walter Chiari nel celeberrimo sketch del Sarchiapone) si potrebbe definire in sostanza un “mistero vuoto”. Come ebbi a ricordare a suo tempo, uno dei più meravigliosi casi di utilizzo della tecnica del MacGuffin lo troviamo proprio nella stupenda pellicola Hitchcockiana «Intrigo internazionale», con Cary Grant, Eve Marie Saint e James Mason (più un giovane Martin Landau nei panni di un enigmaticissimo, al limite del kafkiano, luogotenente della ghenga dei cattivoni).

Pago da bere a chiunque mi sappia spiegare in cosa effettivamente consistesse l’arcano attorno al quale ruota tutta la storia del film. Si trattava di un MacGuffin, per l’appunto, ossia di un pretesto fittizio, di un “bersaglio narrativo” inconsistente, imbastito ad arte per creare suspense, attesa, curiosità, morbosità, senso d’inquietudine, di mistero. Cosa trafficavano, per cosa si arrabattavano, a quale scopo agivano così da birbaccioni, James Mason e compagnia malvagia cantante? La trama non lo rivela, perché non è importante: anche senza saperne di più, suspense e mistero scaturiscono ugualmente. Anzi, forse meglio. Ovviamente non è un accorgimento narrativo utilizzabile a cuor leggero da chiunque. Rimane il fatto che serve grande maestria registica per applicarlo.

Come si è aggiornato l’espediente del MacGuffin nelle pellicole più recenti, pur rimanendo nella sostanza il vecchio trucchetto di sempre? Registi e sceneggiatori si sono buttati sul tecnologico. Mi è venuto da constatarlo recentemente, guardando una sequenza del film «K-Pax – Da un altro mondo» (con Kevin Spacey), che mi si è minimo-comun-denominata in mente con tantissime altre scene di questo genere, viste in altri film.

La scena standard a cui mi riferisco è sintetizzabile nel modo seguente. C’è in ballo un enorme problema “scientifico / barra / tecnologico / barra / matematico” da risolvere. Passa di lì, più o meno per caso, il geniaccio di turno ed in men che non si dica, come stesse bevendo un bicchiere di Chianti, viene a capo del bandolo matematico-cervellotico della questione, facendo fare la figura dei peracottari al meglio della crema dei professori esperti in materia, i quali si erano scornati per anni contro l’invalicabile enigma. Di solito, il contorno narrativo prevede che il geniaccio sia un disadattato, messo ai margini del contesto sociale ordinario, nell’ambito del quale è reputato poco più di un coglionazzo qualunque.

Quasi di regola, è poi contemplata anche l’immersione emotiva nella fase rivelatoria della valentia mentale del protagonista. L’esplosione dell’epifania nell’empireo tecnicistica. Il momento superiore della catarsi, coincidente con l’acme dell’orgasmo da scioglimento del nodo conoscitivo. In parole povere: il geniaccio deve fare vedere quanto ne sa. Tale passaggio fondamentale avviene quando il nostro eroe si mette alla tastiera di un computer e, biascicando tre o quattro fregnacce riguardo alla legge del caos, più due spropositi sulla teoria delle stringhe, smanetta un po’ con la tastiera (normalmente l’effetto risulta più intenso se i tasti rispondono alle dita del geniaccio con sonori ticchettii), mentre d’incanto sul monitor, fino ad un attimo prima inceppato come un ferro vecchio, iniziano ad apparire fantasmagoriche e fluidissime immagini di frattali, orbite planetarie o simil-geometriche sagome, che sgorgano via con la scorrevolezza di un water “ex-gravemente occluso” ed ora felicemente disintasato.

Cosa c’entra in tutto ciò il MacGuffin? C’entra perché al 99% le teorie sostenute dal protagonista per illustrare cosa diavolo sta combinando con i tasti del pc, sono delle ciofeche siderali. Non importa che abbiano un fondamento, o una possibilità di spiegazione plausibile. Al regista interessa creare aspettativa, mistero e senso della sfida mentale.

Per il resto, per quanto gliene può sbattere allo spettatore medio (ma anche al regista stesso ed allo sceneggiatore, se è per questo), la legge del caos potrebbe avere tranquillamente a che fare con un’incauta scelta della desinenza errata dopo la radice “ca” del termine (”os” invece di doppia “z”?), mentre la teoria delle stringhe al massimo potrà rievocare una qualche stagione passata della moda, quando dai mocassini si passò a portare le sneakers.

In più, le uniche cinque o sei persone nel mondo che saprebbero dire davvero qualcosa di sensato sulla legge del caos o sulla teoria delle stringhe, quando vogliono vedere un film non si scomodano per niente di meno complicato di una pellicola di Pasolini o di Ingmar Bergman.

Nell’applicazione del MacGuffin tecnologico, d’altra parte, il regista è aiutato dalla diffusione capillare del computer in sempre più numerose case e uffici del pianeta. Gli spettatori ai quali è familiare la frustrazione di non venir a capo di qualche infernale smacchinamento informatico, sono sempre più numerosi. E sono sempre i medesimi che, una volta superato lo scoglio computeristico (autonomamente o con l’aiuto del solito amico smanettone), godono come dei facoceri tardo-barocchi.

Ecco allora che il momento in cui il geniaccio nostro beniamino riesce finalmente a sturare l’ingorgo algoritmico, tirando con smisurato senso liberatorio la catena dello sciacquone della sapienza tecnocratica, da un punto di vista estetico si trasforma quasi in un surrogato subliminale del culmine dell’eccitazione fisica immortalata nei film a luci rosse.

Alla fine dunque lo spettatore, da una parte gode, ma per altri versi fatica a reprimere fino in fondo quella vocina malignamente scafata che gli rimbomba nell'intimo. Il geniaccio di turno, dopo aver superato l'ardua prova sudando le proverbiali sette camice tecnologiche, lo sentiamo infatti un po' come l'amico cazzaro e “conta fòle” che ci aspetta fedele al bar, per prendere insieme l'aperitivo.

Viene in mente allora quella gustosa barzelletta degli anni '70, nella quale un tipo umano del genere raccontava ad un amico le incredibili sue gesta militari compiute nelle giungle di mezzo mondo, dove aveva sbaragliato col solo uso delle mani nude, orde di ribelli armati fino ai denti, belve feroci e dittatori sanguinari.

E come capitava all'amico paziente sul finale di barzelletta dopo aver ascoltato tutto il bufalesco racconto, viene una gran voglia di entrare nello schermo, andare vicino al geniaccio di turno e, sgranando due occhi così mentre si simula il più sbalordito e riverente stupore, chiedergli: «...ti posso toccare?...».

E dopo avergli assestato una gran pacca confidenziale sulla spalla, sentenziare: «...Ma vai a cagare, vàh!...».


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