lunedì 29 luglio 2013

Nippo-epifania

 
Sono incappato in una piccola epifania nipponica, una micro-magia letteraria, di cui mi piacerebbe rendervi conto oggi. Circa tre anni e mezzo fa ormai, scrissi proprio qui su «Andarperpensieri» un articoletto dedicato ad un bel libro del romanziere giapponese Murakami Haruki, che all’epoca avevo appena finito di leggere. Il titolo del romanzo di allora era ed è «Kafka sulla spiaggia».
 
Nel mio scritto, mi ero un po’ divertito a fare il critico letterario della domenica, come spesso mi succede. Ad un certo punto, mi ero servito di una similitudine fra letteratura ed edilizia. Un po’ trombonescamente, cito un mio passaggio di quello scritto dove introducevo appunto la metafora:
«…Paragoniamo per un momento il romanzo ad un edificio.

Entrambi sono percorsi da linee di forza sotterranee, interne, che ne costituiscono la struttura nascosta. Nel caso dell'edificio forse il concetto è più immediato da cogliere. Nell'«intimo» di pilastri, travi, volte, arcate, si distribuiscono i pesi e i contrappesi che vanno a costituire la “macchina statica” di tutto l'insieme. Come una circolazione sanguigna di forze in gioco, che scorrono lungo le venature della costruzione.
 
Entrando in un edificio, questo suo flusso dinamico interiore è proprio l'ultimo aspetto al quale un visitatore andrebbe a pensare. Passando di stanza in stanza, salendo le scale, soggiornando nei suoi locali, l'unica cosa che ci interessa fare è “leggerne la forma”. Vogliamo provare comfort, senso di rifugio, di protezione, di domesticità. Tutto, tranne sapere se ad esempio, i mattoni di un arcata sotto l'intonaco si stanno spingendo a vicenda come dei dannati per fare stare in piedi la baracca, oppure se una trave armata ci sta dando dentro di buona lena per accogliere lungo i tondini di ferro della sua anima il peso delle persone che si muovono all'interno.
 
In un romanzo succede una cosa simile.
Però per questa volta, con il libro di Murakami Haruki, non cercherò di appurare se le stanze siano ben illuminate e cromaticamente equilibrate, se la temperatura risulti gradevole e ponderata rispetto alle modificazioni climatiche, o se la ventilazione sia dosata nella maniera giusta. Proverò invece proprio ad occuparmi della sua circolazione sanguigna strutturale, delle forze narrative che scorrono all'interno dell'opera.…».
 
Questo vi raccontava il buon Gillipixel qualche tempo fa.
 
Poi di acqua sotto i ponti ne è passata un bel po’, e Murakami Haruki ha scritto altre cose. Sto sempre attento alla sua produzione, perché avendo letto quasi tutte le sue opere, lo conosco come autore che raramente mi delude. Anzi, il più delle volte mi esalta proprio.
 
In genere non mi precipito però sulle novità in libreria. Quando esce un libro nuovo che mi attira, lo lascio sempre decantare vari mesi, se non anni, sugli scaffali. Deve caricarsi della patina del tempo, prima che io provi quella sensazione di trovarmi ormai nel momento giusto per fare la conoscenza di quel libro. Non mi riferisco ad una questione fisica. Non è che il libro debba invecchiare in libreria come oggetto di per sé, nella sua qualità di volume, fatto di quelle pagine e di quella copertina. Di solito infatti va a finire che mi procuro una qualche ristampa, nuova di zecca nella confezione.
 
Ciò che deve maturare invece è la presenza di quel libro nel mondo. Forse il fenomeno è connesso all’idea di tutti i lettori che nel frattempo lo leggono, chi lo sa. Con questo non voglio nemmeno dire che il fatto di essere letto da tanta gente, sia sufficiente per suscitare l’attrazione in me. No, non mi riferisco di certo al fenomeno dei best seller. Il libro deve essere già carico in partenza di fascinose promesse, coltivate inconsciamente nel mio intuito. Poi però, in aggiunta e a tempo debito, pensare che la sua bellezza si sia già impastata nell’animo di tanti altri lettori che considero a me affini, mi fa sentire quel libro come un’entità viva. E mi fa assaporare il mio atto di leggerlo come fosse l’immissione in un flusso di pensieri sbocciati intorno alle parole del testo in questione, passate dalla pagina a centinaia di occhi e di menti di lettori.
 
Per farla breve, alcuni giorni fa ho sentito che era arrivato il momento di leggere «1Q84 – Libro 1 e 2», una delle ultime opere di Murakami Haruki. Il romanzo ha già più d’un paio d’anni e nel frattempo lui ha scritto già anche «1Q84 – Libro 3» e forse altre cose, ma in virtù dei miei criteri di scelta, mi confronto solo ora col libro, mettendoci di mezzo il mio fisiologico “gap temporale di lettore”. Le vicende narrate nel romanzo si dipanano su due storie parallele (struttura adottata spesso da Murakami). In una delle due storie, il protagonista è Tengo, promettente giovane romanziere in erba, alle prese con un manoscritto misterioso confezionato da un’ancor più enigmatica ragazzina. Nella finzione romanzesca, il testo del manoscritto è strepitoso in quanto a storia ed intensità narrativa, ma lo stile è disastroso, persino grammaticalmente traballante. Il giovane Tengo, su incarico di un editor dal fiuto sopraffino, ha il compito di  riscrivere il libro, ripristinandone la forma, nel rispetto della sua potenza ed identità strutturale.
 
Ed ecco quale metafora, ad un certo punto, viene introdotta da Murakami Haruki per rendere l’idea dell’operazione in cui il giovane scrittore si deve calare:
 
«…Mantenere il contenuto identico, senza alcun intervento, e modificare drasticamente lo stile. Come quando si fa la ristrutturazione di un appartamento. La struttura la si lascia uguale, perché in sé non ha alcun problema. E non si va a cambiare la posizione delle condutture dell’acqua. Le cose che invece possono essere sostituite, come il parquet, il soffitto, i muri secondari e i divisori tra le stanze, vengono tolte e sostituite con le nuove. “Sono l’abile carpentiere al quale è stato affidato questo lavoro”, si disse Tengo “non c’è un progetto preciso. Devo ricostruire una parte alla volta, basandomi solo sul mio istinto e sull’esperienza”…».
 
Non ho fatto a tempo a leggere questo passaggio di «1Q84 – Libro 1 e 2», che subito un lieve sorriso epifanico mi si è dipinto sulle labbra. Era la stessa metafora che avevo usato io, tre anni e mezzo fa, per parlare sempre di un libro di Murakami Haruki. Libri ed architettura: l’affinità di meccanismi tra il fenomeno narrativo e quello costruttivo-edile. Non che questo voglia significare nulla. Solo la piacevole sensazione dettata da questa coincidenza del tutto casuale.
 
L’edizione giapponese di «1Q84 – Libro 1 e 2» credo sia uscita proprio nel 2009, mentre in Italia è comparso nell’ottobre 2011, credo. Proprio volendo, avrei potuto trarre ispirazione diretta. Ma oltre a quanto già detto riguardo alle mie abitudini di lettore, ci metto in sovrappiù anche la mia parola di giovane marmotta, per garantirvi che ho iniziato la lettura di «1Q84 – Libro 1 e 2» solamente sabato pomeriggio scorso, 27 luglio 2013. Il flusso di dati opposto mi pare poi veramente qualcosa di fantascientifico: a parte la discrepanza di tempi che già esclude l’ipotesi, non ce lo vedo proprio Murakami Haruki mentre si legge «Andarperpensieri». Va bene tutto, ma ci sarà pur anche un limite alla “sospensione dell’incredulità”.
 
Inoltre, la metafora libri-edifici non è forse nemmeno una di quelle più originali o illuminanti. Non saprei. Rimane però la magia di un incrocio concettuale a tempi sfasati, fra un grande scrittore ed un modesto scribacchino Gillipixante.
 
Aggiungo infine un’altra nota di immodestia personale, prima di rimettere il mio orgoglio nell’armadio, ben cosparso con palline di naftalina marca “umilìn”. In occasione del vecchio scritto relativo a «Kafka sulla spiaggia», realizzai una foto da abbinare al testo sul blog. I miei occhiali, posati sul romanzo, a sua volta posato a terra su un tappeto di foglie gialle (era novembre, giustamente).
 
Ora, non so se si tratti di un tiro mancino dei servizi sociali che, subdolamente a mia insaputa, stanno tentando, in combutta con i tecnici di Google, di iniettarmi qualche dose di autostima, visto che ne sono così sprovvisto. Probabilmente Google riconosce che sono io e mi restituisce questo risultato, non saprei. Ma di fatto mi sono accorto che, digitando «Kafka sulla spiaggia» nello spazietto di ricerca di “Google immagini”, una delle prime foto ad uscire è proprio la mia.
 
Non so nemmeno se la cosa sia effettivamente da considerarsi come un motivo di accrescimento dell’autostima. Molto meglio probabilmente vederla come il giusto completamento di questa curiosa epifania nippo-narrativa.
 



venerdì 26 luglio 2013

La società degli informaccioni


 
Tra i vari canali tv balzati in evidenza dopo l’introduzione del digitale terrestre, ce n’è uno che mi mette addosso una tristezza sovrumana. E che sarà mai, vien spontaneo domandarsi. Quali meste programmazioni saranno propinate attraverso siffatte malinconiche frequenze? No, non è questione di contenuti, ma piuttosto mi riferisco a certe “modalità televisive” applicate da questa emittente.
 
I contenuti, anzi, mi sarebbero in teoria anche molto graditi. Ogni sera, vengono trasmessi vecchi film western e varie preziosità cinematografiche in bianco e nero dei bei tempi eroici del caro mondo a 24 fotogrammi al secondo. Almeno nei primi mesi dopo l’arrivo del digitale, questa era la “filosofia” programmatoria della rete in questione. Dopo un po’ di tempo però, hanno iniziato ad introdurre proprio l’elemento causa del mio irreparabile intristimento relativo. In una banda nera inferiore, creata ad hoc oppure presa semplicemente in prestito dal gioco innescato fra le nuove dimensioni degli schermi ed il vecchio formato in cinemascope, hanno iniziato a far scorrere delle scritte che riportano le principali notizie della giornata. In pratica, mentre guardi il film, nel sottoscala dello sguardo ti passa l’eco del massacro del giorno, l’ultimo pettegolezzo sui reali d’Inghilterra, oppure la penultima polemica sulla recente affermazione del politico di turno.
 
Ora, sarò io un po’ schizzinoso, e avrò gusti difficili, non so cosa dire. Ma a me una roba del genere mette proprio una gran tristezza. E lo voglio proprio ribadire: una tristezza di gran lusso, una tristezza dei giorni di festa. Evidentemente i curatori della programmazione di questo canale, non solo non sono della mia stessa opinione, ma devono senza dubbio esser convinti di aver escogitato proprio una gran geniale trovata, perché hanno anche rincarato la dose. Ho visto infatti di recente che hanno fatto in modo d’incastrare, nel piccolo spazio informativo inferiore, anche un mini-riquadrino contenente le immagini in formato mignon, relative alle notizie citate, con scritte ora non più scorrevoli, ma alternate in dissolvenza, all’unisono con i piccoli filmatini proposti. Il tutto mentre sopra scorrono sempre placide ed imperturbabili, scene di sparatorie e inseguimenti, di languidi ed interminabili baci fra il bellone imbrillantinato e la fatalona vamp d’occasione.
 
Certo, nel mondo di oggi ci sono ben altri problemi e anche di ben più immani proporzioni. Niente di più facile dunque che, a lamentarsi di simili dettagli, si possa comodamente passare per capricciosi cicisbei. Ma ben badando alla questione, non si può non rilevare in essa un sintomo eclatante di un certo smarrimento generalizzato contemporaneo.
 
Non ho rivelato il nome dell’emittente e non intendo farlo. Non aggiungerebbe nulla di significativo al mio discorso e poi loro sono pur sempre liberi di gestire le programmazioni come meglio credono, ed altrettanto libero sono io di saltare ad un altro canale o di spegnere le tele. Ma non lo rivelo soprattutto perché, così come questa a mio parere malsana idea è venuta a loro, allo stesso modo poteva venire benissimo a chiunque altro operatore del mondo televisivo. Questa modalità di trasmissione è infatti solo il riflesso di una forma ormai diffusissima di interpretare e concepire la realtà. Non è che trasmettere vecchi film “drogati” di iper-informazionismo aggravi la situazione: prende solo atto di un dato di fatto reputato ormai scontato.
 
Il dato di fatto è questo scorrimento impazzito di ogni questione relegata alla sola pertinenza della superficie delle cose. Viviamo incessantemente in questo flusso inarrestabile, tutto il reale è appiattito su una pellicola sottilissima. L’addentrarsi in un qualche tipo di profondità è sconsigliato, non contemplato, reso obsoleto dall’atmosfera tutta intorno a noi. Guai a fermarsi un attimo in un proprio spazio riflessivo, fossero anche soltanto quei quattro pensieri melensi che possono scaturire dalle scene di un vecchio film. Guai a ricordarsi che ci sono anche momenti di fertilità concettuale solitaria. Dobbiamo invece stare sempre ben “informati”, ingurgitare notizie su notizie, ridotte ormai alla piattezza di insipidi slogan, voci vane svuotate ormai anche dell’ultimo briciolo genuino di vita. Come tante cozze abbarbicate al proprio scoglio, filtriamo acqua su acqua, ma il significato di questo filtraggio ormai ci sfugge e se qualcuna di noi cozze osa aprire le valve, oltre che per far passare acqua, anche per pronunciare qualche flebile dubbio, del tipo: «…Ma perché tutta questa acqua in bocca?...», la risposta aleggiante nell’aria sembra essere sempre la stessa: «…Fregatene! Tu filtra e non rompere i coglioni...».
 
Non mi sono montato la testa e non ho la pretesa di arrogarmi qui rinnovate prerogative evangelizzanti, ma ad ognuno è noto come il chicco di grano, per poter dar vita ad una spiga, debba poter affondare nella terra, stare lì sotto a lungo, trasformarsi con una lenta macerazione statica che richiede i suoi tempi e le sue modalità, per poi poter tornare a riproiettarsi verso l’alto e sbucare fuori decuplicato in ricchezza. Il pensiero travolto dal flusso superficiale ipertrofico invece non può far altro che marcire all’aria, venir ingollato dai piccioni (per fare l’invereconda ed immaginabile fine), oppure essere spazzato via dal vento.
 
Adesso, dopo le notizie in scorrimento sotto i fotogrammi dei vecchi film ed il successivo “perfezionamento” con aggiunta di filmatini, i prossimi passi strategici che mi aspetto sono l’inserimento di due colonnette laterali, una per le previsioni meteo e l’altra per gli aggiornamenti in tempo reale degli indici di borsa.
 
Chissà che una volta per tutte non capiterà allora di assistere ad una surreale trasmutazione delle vetuste pellicole, e magari un Gary Cooper o un Gregory Peck se ne usciranno finalmente fuori dal video in smadonnante sentenza: «…Eh beh? Noi siamo qui che ci danniamo l’anima a furia di pistolettate, cazzotti e corteggiamenti mozzafiato…adesso, o ci prestate un po’ attenzione e seguite il film, oppure ve ne andate tutti affanculo!!!...».
 


venerdì 19 luglio 2013

Black bumble-bee

 
Esisterà un «Bombo fans club»? Se ci fosse, mi iscriverei subito, tentando magari la scalata alla carica di segretario, se non addirittura a quella di presidente. Ho già parlato in altre occasioni di questo simpatico animaletto, cugino grasso delle api, e mi ero divertito a fermarlo in alcune immagini fotografiche. Bisogna però precisare in che modo lo si può definire simpatico. Di certo il bombo non è il tipo di bestiola da scegliere come animale da compagnia. Non ce lo vedo buono buono con guinzaglio e pungiglioneruola (è il corrispettivo della museruola), mentre ce lo portiamo appresso durante lo struscio serale lungo il corso principale in centro.
 
Non va mai dimenticato che al di là del suo aspetto pacioso da compagnone ronzante, sotto sotto si nasconde sempre un discreto punzonatore di tenere carni umane. Per cui, simpatico sì, ma a debita distanza, è piacevole osservarlo quando capita di coglierlo alle prese con pistilli e corolle di fiori. E non è aggressivo, se lo si lascia in pace.
 
Le altre volte lo avevo fotografato nella sua forma più tradizionale, il più classico dei bombi a striature gialle con cucuzzolo posteriore bianco pellicciato. Non mi sarei mai aspettato dunque la sorpresa di alcuni giorni fa, quando, inseguendo distrattamente le movenze di un’ordinaria apetta zonzosa alle prese con le sue impollinazioni di prammatica, mi sono trovato di fronte il gioiello dei bombi, la gemma più preziosa della famiglia bombardoni: niente meno che un luccicante bombo nero extralusso. Il tulipano nero dei bombi.
 
 
Che esistesse in versione completamente nera, non lo sapevo nemmeno. Però ho capito subito che non si trattava di un calabrone. Quelli sono tosti, sono aggressivi. Come avrebbero sicuramente detto in termine tecnico i dignitari di corte all’epoca del Re Sole, i calabroni son degli “spaccaculi” («…les calabronnes sont spacacül tres terrible…»). I calabroni ti arrivano vicino con un volume di ronzaggio che già da solo mette paura e sembrano dire: «…bzzz-bzzz, lasciami perdere che sto già incazzato, bzzz-bzzz, e ti pianto due dita di pungiglione bene in fondo…».
 
Questo che ho incontrato io, invece no. Era placido, si gustava appieno le sue impollinate, volava zonzoso e giulivo, con un volo ampio e delicato, non come il calabrone, che è ficcante già nelle sue planate arrembanti. Questo invece non faceva per niente paura. Anzi, sempre fermo restando il fatto di lasciarlo stare in pace a sbrigare le faccende sue, emanava un’aura di elegante bonarietà. Tutti sintomi bombeschi genuini, insomma.
 
 
 
Indagando un po’, ho scoperto poi che tra bombi normali e questi neri neri, non si tratta propriamente della stessa famigliola in senso stretto. I primi si chiamano proprio Bombus Pascuorum, mentre questi nero carbone sono esponenti dell’Ape legnaiola. Depongono infatti le uova ricavandosi lo spazio dentro ceppi di legno tenero, tanto che da questa caratteristica deriva anche il loro nome scientifico, Xylocopa violacea, dal greco “xylos” (=legno) e “kopto” (=tagliare). Violacea poi, perché hanno le ali lucide e cangianti, con riflessi tendenti per l’appunto verso il viola (e son contento che anche da uno dei miei scatti, questa caratteristica sia stata colta). Ha anche un nome per gli amici, e sarebbe Gavarone, ma confonderlo col calabrone è un grave errore entomologico.
 
 
 
Per me rimane ad ogni modo un bombo nero. Rispetto al cugino a strisce, è più serioso e carismatico, ha meno peluria, ma è pelosetto quanto basta per rimarcare le sue forme buffe ed eleganti ad un tempo. In una cosa poi è esattamente identico a suo cugino: anche se dalle foto non si evince, perché sarebbe stato necessario un filmato, vi garantisco che usa immergersi dentro al calice del fiore con la stessa voluttà e senso della piacevolezza dimostrati dal bombo tradizionale. Anzi, forse, rispetto al cugino, il bombo nero in questo è ancor più appassionato: quando si trova a capofitto immerso dentro il fiore, e l’ho visto proprio coi miei occhi, scodinzola nel vero senso della parola, assesta dei graziosi colpetti vibratori col posteriore, inequivocabile segnale dello spasso impollinatorio che si sta godendo in quegli attimi.
 
 



 
 
Tra le altre cose, ho letto che si tratta di una cosiddetta “ape solitaria”, ossia di un tipo che si fa i fatti suoi, non è gregaria come l’ape classica da miele. Questo, dal mio punto di vista, è un aspetto bello del bombo nero. Inoltre, questo piccolo miracolo di nerezza zonzosa utilizza il pungiglione davvero in rarissime circostanze, bisogna proprio farlo incavolare parecchio, prima che arrivi a questi estremi rimedi. E anche quando, la sua puntura, rispetto a quella di altre api, presenta una tossicità bassissima. Il più è il male della sforacchiata, ma non ci sono conseguenze di più ampia gravità.
 
Insomma, cosa pretendere di più da un giretto in giardino con la macchina fotografica in mano?
 


lunedì 8 luglio 2013

Per me la Champions League…



Per me la Champions League
si chiamerà sempre Coppa dei Campioni.

I giocatori titolari avranno sempre
sulla maglia
solo numeri da 1 a 11.

1 sarà sempre il portiere
2, sempre il terzino destro
3, sempre il terzino sinistro
4, sempre il mediano
5, sempre lo stopper
6, sempre il libero
7, sempre l’ala destra
8, sempre la mezz’ala sinistra
9, sempre il centroavanti
10, sempre la mezz’ala destra
11, sempre l’ala sinistra.

Dal 12 in su, saranno sempre panchinari.
Il 12 sarà sempre il portiere di riserva.

Metti che uno volesse giocare col 99 sulla maglia:
avrebbe sempre 87 possibilità in meno di entrare
in campo, rispetto al numero 12.

Se una squadra vorrà schierare più di 2 giocatori stranieri,
si dovrà sempre iscrivere al campionato estero della
stessa nazione degli stranieri più numerosi presenti nella formazione.

I difensori potranno sempre passare indietro
la palla al portiere, che potrà raccoglierla con le mani.

Le partite di campionato si giocheranno sempre,
tutte, alla domenica pomeriggio, in contemporanea,
con orario d’inizio che potrà variare fra le 14 e 30,
d’inverno, e le 16, in primavera.

Se qualcuno proporrà di giocare alle 12 e 30,
i giocatori avranno sempre il diritto di andargli
a tirare dei calci di punizione sul culo, 
e poi tornare negli spogliatoi
ad aspettare che vengano le 14 e 30.

Le partite di coppa si giocheranno sempre
il mercoledì sera, con orario d’inizio fra le 20 e 30
e le 21, fatte salve piccole differenze di fuso.

Il campionato inizierà sempre
fra fine settembre e inizio ottobre
e finirà al massimo ai primi di giugno,
ma di regola più verso fine maggio.

La tv parlerà sempre di calcio
solo fra sabato sera e domenica sera.
Ne parlerà anche al mercoledì, con le coppe,
ma il resto della settimana ne parleranno solo gli amici al bar.

La passione per il calcio sarà sempre
una grande passione e verrà intesa
come tale: una passione, appunto.

Chi parlerà di “fede calcistica”
avrà sempre diritto al
trattamento sanitario obbligatorio
periodico, passato gratuitamente dalla mutua.

Nelle scuole, ai bambini, fin dalla prima elementare,
verrà sempre ricordato che una volta un calciatore,
durante un’intervista, ad una domanda
sul titolo di studio conseguito, rispose:
«…Mi mancano 5 anni al diploma di ragioneria…».



venerdì 5 luglio 2013

Tortore

 
 
Una famigliola di tortorine ha deciso di prendere la residenza sull’alloro nel mio giardino. Le fronde più alte di questo alloro lambiscono il balcone e lo superano abbondantemente in altezza. In questo modo, il piano al quale la famiglia Tortori si è stabilita viene a corrispondere giusto alla quota dello sguardo, stando in piedi sul balcone. Nell’ultimo paio di mesi o tre, ho così potuto osservare l’evolversi delle poetiche dinamiche familiari di questo piccolo nucleo tortoresco campagnolo.
 
Quando una famiglia di tortore mette su casa nel tuo giardino, non è che ti avvisa con le comunicazioni burocratiche di rito, tipo «…Guarda che sto facendo rogito e quando il notaio De Perniciotti si dà una mossa, vengo ad abitare lì da te…». No, loro cominciano a ronzare nei paraggi, mettono lì dei ramoscelli incrociati su una forcella dell’alloro, e giorno dopo giorno cominci ad osservare una tortora accovacciata in quell’incavo minimale.
 
 
Il nido della tortora è davvero uno spettacolo di economia costruttiva, che evidentemente si coniuga benissimo con la notevole efficienza di cui necessita. Il nido era già lì intorno a fine aprile, inizio maggio. E’ stato sferzato da piogge, venti, raffiche anche di una certa violenza, ma nel frattempo hanno avuto modo di nascere due nidiate di piccoletti. Nella mia svagatezza di umano, non avevo tenuto conto del fatto che la natura non fa mai le cose a caso. Se si erano piazzate lì, era perché lo hanno ritenuto un buon posto per nidificare. Questi piccoletti, con la mamma in cova, sono andati in altalena per giorni e giorni, complice la flessibilità dei rami d’alloro, ma il nido ha tenuto a tutti gli sbalzi, gli scossoni, le fustigate meteo. E se non vedessi quel tenero piccionoide stazionare ore e ore in quel crocicchio di alloro, quasi quasi non diresti nemmeno che sotto ha un nido, tanto è risicato e spartano il groviglio di pagliuzze.
 
 
La tortora l’ho sempre data per scontata. E’ un uccelletto talmente comune, che non ci ho mai fatto caso più di tanto. E invece non è per nulla scontata. Mi sono documentato un po’. In quanto ad astrusità, il nome scientifico fa abbastanza impressione: streptopelia decaocto. Ma quello con cui è familiarmente nota, suona molto meglio: Tortora dal collare, anche detta orientale.
 
Ho scoperto poi altre cose. La tortorina è data per scontata perché in qualche modo è l’uccelletto venuto col boom economico. Mi spiego meglio: è originaria dell’Asia meridionale (da qui il suo secondo nome comune) e si è diffusa in Europa, e quindi in Italia, solo a partire dagli anni del secondo dopoguerra, divenendo una presenza veramente densa solamente dalla fine degli anni ’50. Probabilmente questa sua intensificazione non sarebbe stata possibile in un contesto diverso da quello del benessere postbellico, per questo mi piace chiamarla l’«uccelletto del boom». Era il massimo dell’esotismo ornitologico che si potessero concedere i nostri nonni e genitori all’epoca, insieme alle stratosferiche novità dei mobili economici rivestiti in formica, o delle prime lavatrici con l’oblò, il cui rombo in centrifuga colmava di orgoglio la massaia con in mente ancora ben chiare le fatiche dei bucati fatti all’antica.
 
La tortorina è allora l’uccellino anti-esotico per eccellenza, un diffusore democratico di eleganza aviaria a basso costo, divenuta familiare insieme agli accessori della modernità disponibili per tutti. Col suo mantellino cenere e i modi da impiegato modello, fa venire in mente proprio un famoso film «dei suoi tempi»: «L’uomo dal vestito grigio», con un ordinarissimo Gregory Peck, simbolo massimo di dignità ed essenziale senso del vivere. Gli unici vezzi che si concede sono una specie di sciarpetta nera, un foulard sul collo (da qui il suo primo nome comune), ed un tocco della stessa tonalità sulla punta delle penne delle ali.
 
La tortora per me è in un certo senso anche l’uccellino «degli anni ‘70», perché la associo a tanti pomeriggi estivi da bambino, col suo classico canto un po’ “grigetto”, ma non per questo privo di fascino, a fare da sottofondo a mille momenti di gioco e fantasticheria infantile. Gli anni ’70 sono stati «di piombo», ma al tempo stesso anni di fervore sociale e culturale, anni densi, pieni. E intanto il «cu-cu-cuk» della tortorina era sempre lì, costante, fedele, immutato, a sagomare la sfera del cielo delle sue varie sfumature stagionali.
 
 
Tutte queste sono le suggestioni “antopomorfizzanti” che ho sempre associato alla figura della tortorina, ma adesso che ho avuto modo di contemplare per un po’ la famigliola sull’alloro, ho notato altri aspetti più strettamente legati alla sua quotidianità di uccellino vero e proprio. Le mie deduzioni si basano su osservazioni estemporanee ed amatoriali, per cui non sono ben certo di non dire inesattezze etologiche. Ad esempio, una cosa non ho capito bene, ossia se alla cova si alternino diversi componenti della famiglia, o se faccia sempre tutto quella che presumo sia la mamma. Di fatto però, un dettaglio molto interessante mi pare di averlo colto. Quando il soggetto covante è da un po’ di tempo lì fisso che compie il suo dovere, e si parla di ore e ore di paziente stazionamento, può capitare una piccola magia. Dall’individuo in cova, parte quello che mi è parso un richiamo, emesso col tipico verso. Subito, in cielo si intesse una rete di botte e risposte che non saprei definire in miglior modo se non come “sistema di comunicazione”.



Parte il «cu-cu-cuk» dal nido, gliene fa eco un altro dal tetto di un palazzo del circondario, a sua volta un terzo gli rimbalza dietro dalla punta di una magnolia nel giardino dei vicini. La società delle tortorine deve essere comunicativamente piuttosto organizzata, insomma. Dopo il fitto scambio di segnali, qualcosa succede. Chi era alla cova, magari si sposta e parte via. Passa ancora un po’ di tempo, ritorna qualcun altro: chissà se è sempre la mamma, oppure il papà, o magari una zia. Qualche volta mi pare di aver visto un vero e proprio cambio in diretta, ma non ci giurerei, nel dedalo dell’alloro si fatica sempre un po’ a vederci chiaro.
 
Un’altra scenetta di faccenduole domestiche invece l’ho vista bella nitida e da qui ho anche capito come mai i piccoletti, rispetto all’eleganza compita degli esemplari adulti, sono così sgraziatelli e buffamente “carnascialeschi” nel sembiante. Hanno un becco spropositato rispetto alla testolina, tanto da ricordare una delle più beffarde maschere indossate dai perfidi convitati alla mefistofelica festa in maschera dell’«Eyes wide shut» kubrickiano. Evidentemente, il becco lungo serve loro per pescare dentro la bocca della mamma, quando questa viene a nutrirli. Mamma tortora giunge e si appollaia sul bordo del nido. Presenta un gozzetto pronunciato, dove deve aver immagazzinato un gruzzoletto di cibo sufficiente per i due spiumatelli di turno (le covate sono sempre di due piccoli). Apre il becco e i due disgraziatelli ci si immergono a capo fitto, all’unisono, come dei forsennati. Questo l’ho proprio visto coi miei occhi ed è stata una piccola emozione.
 
 
Le foto che sono riuscito a cogliere di alcuni momenti di placido far nulla tortoresco non sono certo degne di passare in rassegna a “Super-Quark”, ma qualcosa si intravede. Il fitto del “groviglio laureato” è davvero una barriera insidiosa per l’autofocus della fotocamera, ed inoltre i piccoletti hanno la tendenza a starsene quasi sempre «…ringuattati come’nu gattaccé suriano inta’a tinozza di’i panni l’luridi…», come direbbe Crozza-Napolitano.

Un’ultima nota sul verso della tortorina. E’ l’unico verso di uccellino che so imitare piuttosto bene. Il trucchetto lo imparai tantissimi anni fa, da bambino, forse allenandomi proprio sullo stesso balcone, mentre nell’aria decine di tortorine “original anni ’70” mi davano l’imbeccata sonora. Bisogna mettere le mani a formare una sorta di conchiglia, disponendo i pollici in modo da creare una specie di ugello in stile strumento a fiato. Si soffia dentro e modulando con un po’ di perizia l’aria, ne esce un esatto suono tortoresco ad alta fedeltà.
 
Leggendo qua e là, infine, mi sono reso conto di un’altra piccola curiosità relativa alle tortorine, che in effetti mi era già ben nota, ma intorno alla quale non avevo mai fatto mente locale. La tortora non ha solo un tipo di verso, ossia il classico «cu-cu-cuk». Quello lo sfodera soltanto se si trova in postazione fissa. Quando è in volo invece, adotta una sorta di zirlo fischiato, un trillo giocoso e ciarliero che suona più o meno come un fulmineo «friiiiiiii» sbottato di colpo, a fendere l’aria durante le sue planate. E per gli animi più trasognati, è un attimo fare un “due più due” poetico, e correre con la fantasia all’assonanza con la parola inglese «free», «libero».
 
Insomma, cari amici viandanti per pensieri, ce n’è abbastanza per concludere che non sempre chi indossa un vestito grigio dev’essere per forza un individuo piatto ed estraneo all’originalità.


mercoledì 3 luglio 2013

Wile E. Don Coyote della Mancia

 
Un’opera della complessità del Don Chisciotte di Cervantes ha avuto nei secoli decine e decine di esegeti, che hanno sviscerato questo monumento della letteratura mondiale in ogni suo risvolto di senso, suggestione allegorica e profondità semantica. Non saprei dunque dire se le mie osservazioni attuali siano già state messe in rilievo da altri commentatori. Mi sembra in ogni caso interessante spenderci intorno ancora due parole, non fosse altro che per la curiosità delle questioni in gioco.
 
Parto innanzitutto da un’impressione nuda e cruda, scaturita spontaneamente dalla lettura dell’opera che mi vede impegnato in questo periodo. Si tratta di una reazione bizzarra e incontrollata, forse l’ultima che mi sarei aspettato da me stesso. Piccolo inciso. Mi pare di aver già espresso simili concetti, in un’altra occasione: quando ci si confronta con un’opera d’arte di un certo rilievo, ritengo sia molto importante documentarsi in merito, leggere quanto è stato detto dai critici più autorevoli, cercare di conoscere le diverse interpretazioni. Ma altrettanto importante è lasciarsi andare all’ascolto puro e semplice. Stare semplicemente “lì”, dinanzi all’opera, e osservare come reagiamo.
 
Una delle mie reazioni di fronte alla lettura di Don Chisciotte mi ha stupito, e non poco. E’ quasi superfluo ricordare il meccanismo narrativo più noto dell’opera. Don Chisciotte, signorotto decaduto di provincia, in un’epoca di crisi spirituale e forte disincanto (fine ‘500 - inizio ‘600), infervorato dalla smodata lettura di numerosi tomi che decantano una vagheggiata età dell’oro durante la quale l’impareggiabile mondo della cavalleria errante diede il meglio di sé, si autoconvince di essere egli stesso un valoroso armigero equestre e intravede poetiche fonti di mirabili avventure dove ogni altra persona non vede che banali episodi della quotidianità.
 
Risultato: il novello cavaliere errante s’incaponisce nel volersi cacciare a piè pari in queste fantomatiche imprese, alla conclusione delle quali si ritrova quasi ogni volta matematicamente scornato e mazzolato. Ed ecco la mia reazione al reiterarsi di questo dispositivo narrativo: da principio, le insistenze di Don Chisciotte nel voler vedere ciò che nella realtà non è, mi causano una specie di fastidio, a tratti anche intenso; quando poi inevitabilmente quel gran buffone si scorna contro la durezza dei fatti, provo una sorta di perfida soddisfazione e di sadica ricompensa, che si concretizzano in pensieri fra me e me, del genere: «..Toh, ti sta ben fatta, pezzo d’un coglionazzo…dovevano suonartele più forte…» o altre simili invettive interiori grondanti gaudiosa malvagità.
 
E’ vero che non ci si conosce mai abbastanza, ma la cosa mi ha meravigliato non poco, dicevo. Perché in generale mi sono sempre ritenuto una persona non solo mite, ma anche dotata di una certa dose di capacità comprensiva verso le debolezze, i limiti, le mancanze altrui. Non sono poi certo io il tipo del sostenitore ad oltranza del realismo più puro, anzi, ho sempre nutrito una certa simpatia per i sognatori e in generale per chi si appassiona alle «inutilità» della vita e alle cause perse.
 
Come mai, dunque, l’impianto narrativo del Don Chisciotte è in grado di andare a scoprire questo aspetto inatteso e nascosto del mio sentire, generandomi dentro sensazioni che reputavo piuttosto aliene dal mio modo di essere? Non so se l’effetto fosse stato ricercato con intenzionalità e chiara consapevolezza da Cervantes stesso. Di fatto questa reazione mi s’innesca dentro, per cui la annovero di diritto fra quelle potenzialmente suscitabili dalla lettura dell’opera.
 
Ho provato a darmi una spiegazione. Don Chisciotte è di fatto un folle, un debole all’ennesima potenza, perché esposto dalla sua fragilità psicologica a tutte le insidie del mondo «utilitaristicamente» inteso. Ha perso ogni contatto con le cose pratiche e con candida ostinazione vive in un suo mondo a parte. Don Chisciotte, rispetto alla «normalità», è dunque un estraneo. In sostanza, è un diverso. E la diversità, anche se a parole ci si proclama tutti pronti ad accettarla, a comprenderla e a capirla, la diversità, dicevo, nei fatti può dare fastidio. Una volta sentii le illuminanti parole di un saggio sacerdote, che diceva più o meno così: «…Aiutare gli altri può essere anche molto faticoso e antipatico, riserva situazioni spesso spiacevoli, perché chi è nel bisogno, chi sta male davvero, a causa delle sue stesse fragilità, riesce anche a trascinarti nel suo malessere, può buttarti addosso tanta sgradevolezza…».
 
Fenomeni interiori molto simili succedono quando ci si confronta con la diversità. La diversità può essere sgradevole e fastidiosa, antipatica. Forse allora Don Chisciotte, col suo smuoverci dentro sentimenti di questo tipo, ci mette in guardia dall’edulcorata visione incentivata dagli idealismi di tutte le specie, quelli che ci fanno illudere di essere per natura ben disposti verso il diverso, verso l’eccezione umana, verso l’anomalo. In realtà, il diverso sotto sotto ci spaventa e ci causa fastidio, irritazione, ripulsa, e se capita di vederlo mazzolato, ne godiamo pure. Ma alla fine, ripensando a tutta la dinamica del meccanismo nella sua subdola interezza, possiamo prendere atto di questo automatismo emotivo leggermente perverso che alberga in noi, e trarne spunti di riflessione.
 
Non so se questa mia interpretazione del Don Chisciotte possa essere plausibile. Si tratta solo di una mia ipotesi estemporanea.
 
Un altro aspetto del Chisciotte che ho notato, più leggero e superficiale stavolta, è sempre connesso al continuo suo esser fatto oggetto di “mazzuolamenti” spropositati, al limite della grottesca esagerazione. In altre parole, percorrendo le righe dell’immortale avventura di Cervantes, ci si meraviglia altresì di come il suo cavaliere sgangherato venga legnato e bastonato in modo ogni volta così feroce, ma risulti poi sempre pronto ad affrontare quasi subito nuove peripezie. Certo, se si fa bene attenzione, la cosa è ben giostrata da Cervantes, ma non si può fare a meno di notare una certa sproporzione fra le botte prese, che stenderebbero per sei anni di fila una persona anche di robusta costituzione, e la vivacità polemica che invece Don Chiscotte sa andare sempre prontamente a ripescare nel suo animo e nel suo fisico.
 
Quest’altra sfaccettatura del Chisciotte mi ha fatto venire in mente un buffo parallelismo con lo sfortunatissimo protagonista di uno dei cartoon più famosi, l’acerrimo nemico dell’inafferrabile Road Runner Beep Beep, ossia sua eminenza il gran cerimoniere della sfiga, Wile E. Coyote. Tenuto conto delle debite distinzioni, Don Chisciotte e Wile E. Coyote mi sembrano allora un po’ imparentati, come personaggi. Tutti e due ambiscono all’impossibile, si prefiggono mete irrealistiche, si sfasciano contro il muro inamovibile del non plausibile, ma in qualche modo sono commoventi nel loro idealistico ostinarsi, si ricompongono come esseri di gomma, anche dopo le batoste più clamorose e ancor più del fisico, hanno incrollabile lo spirito, che non teme ferita, ammaccatura, o “spatasciamento” di sorta.
 
Sempre fatte salve le differenze d’importanza artistica, vedo allora in Don Chisciotte una sorta di anticipazione di certe tematiche dei cartoni animati moderni. Perché in fondo anche Wile E. Coyote, ancor prima che di Beep Beep, è nemico di una realtà ostile che non vuole piegarsi ad obbedire ai mille marchingegni da lui architettati per farla andare secondo la propria volontà. Cosa che, a ben vedere, non è poi molto distante da quanto capita anche a ciascuno, nell’esperienza comune di tutti i giorni.