venerdì 13 giugno 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Itzchak Tarkay (1935-2012)

Oggi Kika ci porta a conoscere un pittore che ha attraversato buona parte del drammatico “secolo breve” (così come viene anche chiamato il ‘900) con un'inopinata levità, dedicata prevalentemente alla ricerca della bellezza e dell’eleganza pura. Parliamo di Itzchak Tarkay (Subotica, 1935 - 3 giugno 2012), artista israeliano di origini mitteleuropee, ed in particolare della sua opera intitolata “Conversazione”.

Tarkay non è un autore molto noto e non si trovano tante informazioni critiche sulla sua opera. Segnalo un sito interessante a riguardo, con alcuni dati essenziali sull'artista e molte belle immagini di suoi lavori. A parte qualche cenno “biografico-operativo”, mi sbizzarrirò dunque con alcune mie osservazioni personali estemporanee.

Un dato interessante da segnalare è che Itzchak Tarkay nacque da famiglia ebrea a Subotica, una città dell'attuale Serbia che storicamente ha vissuto vicende culturali fortemente influenzate dalla propria posizione di confine (tra retaggi austro-ungarici e incipienti costrizioni jugoslave). Scorrendo velocemente la voce di wikipedia riguardante Subotica, ho colto un passaggio che mi ha dato alcuni spunti di riflessione:

«...Nel corso della storia sono state utilizzate almeno due centinaia di diverse forme nominali per indicare la città di Subotica. Questo è dovuto al fatto che Subotica ha accolto fin dai tempi del Medioevo diversi popoli. Essi hanno scritto della città utilizzando le loro lingue, le quali, per la maggior parte, non hanno fissato la loro grafia definitiva fino all'era moderna...».

La famiglia di Itzchak Tarkay subì il tragico destino di migliaia di altre famiglie ebraiche in quegli anni: deportata nel lager di Mauthausen, nel 1944, venne liberata poi dagli Alleati a fine conflitto. Nel 1949, Tarkay segue la famiglia che si trasferisce nel neonato stato israeliano, dove frequenta l'Accademia Bezalel di Arte e Design dal 1951, e si laurea al Avni Institute of Art and Design di Tel Aviv nel 1956.

Questi brevi cenni biografici, incrociati con l'espressività particolare riscontrabile nei quadri di   Itzchak Tarkay, mi hanno offerto alcuni spunti, magari un po' vaghi ed evanescenti, ma che mi piacerebbe illustrare. Itzchak Tarkay è stato un artista con profondissime radici culturali, tuttavia pressoché definitivamente sradicate (col genocidio del suo popolo). Inoltre, era originario di una città, e di una parte d'Europa, anch'essa praticamente “cancellata” dal punto di vista dell'identità più strettamente intesa, in seguito agli epocali mutamenti storici subiti.
 
 
 
 
 
Come si traduce, in termini estetici, tutto questo complesso retroterra culturale? A mio parere non è un caso che in  Itzchak Tarkay, la tematica si presenti in misura quasi del tutto ininfluente. Non ha interesse per soggetti sociali, politici, o che potremmo definire in qualche modo “impegnati” (e dire che, vivendo in Israele, avrebbe avuto l'imbarazzo della scelta). Per una vita intera, dipinge eleganti soggetti femminili, intenti a fare esattamente “un bel nulla”. Mi azzardo ad ipotizzare che Tarkay, in questo modo, si sia voluto concentrare totalmente sulla ricerca formale pura. In questo senso è un autore cosmopolita, che si innalza al di sopra delle contingenze storiche, con l'intento di cogliere l'eterno senso celato dietro le forme della realtà. Dite che ho esagerato con l'analisi? Boh, non so...a me questa cosa è venuta in mente e l'ho buttata lì. Come spunto di riflessione non mi pareva male... 

D'altra parte, non è mia intenzione, né esagerare l'importanza dell'opera di questo autore, ma nemmeno sminuirla troppo. Con Itzchak Tarkay, non parliamo di un artista particolarmente innovativo o rivoluzionario. Pur operando in pieno '900, i suoi riferimenti pittorici si rifanno in parte all'impressionismo, in parte alle correnti Fauves e Nabis, a Gauguin e poi ancora a Matisse. Mi ha incuriosito tuttavia un altro  aspetto del suo fare artistico, tanto da farmi avventurare in un altro piccolo excursus mentale su temi d'arte generalissimi, ma ai quali magari val la pena accennare.

Se si osservano le damine di  Itzchak Tarkay e tutti gli altri oggetti che fanno parte del loro ambiente pittoricamente riprodotto, si può notare come siano ritratte in parte con nette delimitazioni dettate dalla linea nera, in parte con pure macchie di colore che emergono all'uopo, occupando determinate porzioni della scena. Mi volevo allora soffermare brevemente sulla questione linea-colore, una delle più antiche e fondamentali di tutta la storia dell'arte (in realtà su questo tema si potrebbero produrre 10 libri, ma va beh, si prendano come brevi flash suggestivi i rapidi cenni che mi accingo a scrivere, con tutti i limiti di un'estrema sintesi così raffazzonata...).

Approcciare il soggetto da ritrarre, partendo dal punto di vista della linea, oppure da quello della “macchia” di colore, comporta due veri e propri modi di vedere la realtà completamente diversi. La linea presuppone una sorta di “appropriazione razionalistica” del mondo: contornando il soggetto lo si pone sotto l'egida di una identificazione fondata su di un certo ordine mentale, si privilegia la concretezza, la determinazione chiara degli oggetti, sempre mediata dalla mente. 

L'accento posto sulla “autosufficienza espressiva” del colore invece, scelta come “tramite significante”  principale, introduce una visione della realtà che accetta la “sensazione” come testimone primario.

Da un parte la ragione, dall'altra la sensazione: si tratta di un dualismo nato insieme all'arte stessa, risalente addirittura ai lontanissimi periodi del paleo e del neo-litico. Due interessantissimi passaggi tratti da “La storia sociale dell'arte” (1955) di Arnold Hauser, ci confortano in tal senso.

La “fedeltà alla sensazione”, che privilegia la forma dettata da colori “liberi”, vige per tutto il Paleolitico:

«...Questo fenomeno, forse il più singolare di tutta la storia dell'arte, è tanto più sconcertante in quanto non trova riscontro nei disegni infantili, né, di solito, nell'arte dei selvaggi. I disegni dei bambini e l'arte dei selvaggi son frutto della ragione, non dei sensi; mostrano quel che il bimbo e il selvaggio sanno, non quello che vedono realmente. Entrambi offrono dell'oggetto una sintesi teorica, non una visione organica...[...]...È viceversa caratteristica del naturalismo paleolitico la capacità di rendere l'impressione visiva in una forma cosa immediata, pura, libera, esente da aggiunte o limitazioni intellettuali, che rimane un esempio unico fino al moderno impressionismo. Qui noi troviamo studi di movimento che già richiamano le nostre istantanee fotografiche, e che ritroviamo soltanto nelle figure di un Degas o di un Toulouse-Lautrec; al punto che, ad un occhio non esercitato dall'impressionismo, molto in queste pitture deve apparire mal disegnato e incomprensibile...»

Col Neolitico, s'insinua la nuova figuratività incentrata fondamentalmente dalla linea:

«...Lo stile naturalistico dura per tutta l'era paleolitica cioè per molte migliaia d'anni; una svolta - il primo mutamento stilistico nella storia dell'arte - si manifesta soltanto con la transizione dal paleolitico al neolitico. Soltanto allora la visione naturalistica, aperta alla varietà delle esperienze, cede il passo a una stilizzazione geometrica, a un'arte che tende ad estraniarsi dalla ricchezza della realtà empirica. Invece del verismo, che aderisce con amore e pazienza al carattere del modello, d'ora in poi troviamo dappertutto segni schematici e convenzionali, quasi geroglifici che alludono all'oggetto, anziché rappresentarlo. Anziché la vita concreta nella sua pienezza, l'arte mira a fissare l'idea, il concetto, la sostanza delle cose, a crear simboli, non riproduzioni...».

Si potrà storcere il naso di fronte a questi collegamenti all'apparenza alquanto arditi, e soprattutto ci si potrà domandare cosa c'entra tutto questo con  Itzchak Tarkay. Ma la mia modesta intenzione era solo quella di lanciare qua e là alcune suggestioni sparse, utili “richiami” per la curiosità di ciascuno, da approfondire poi ovviamente come si deve in altre sedi e con altri strumenti.
Per ora, mi limito a concludere il discorso con la mia indagine fisiognomica di oggi. La vaghezza dei tratti delle damine del dipinto di  Itzchak Tarkay e la loro duplice presenza, mi hanno dato modo di divertirmi nella ricerca, e di ciurlare anche un po' nel manico fisiognomico. Ho scovato due somiglianze, una per ciascuna damina. Partiamo con quella da sinistra:
 
Qui davvero le presentazioni sono superflue. Siamo infatti di fronte ad una gran diva a tutto tondo, Liza Minnelli, attrice e cantante strepitosa.

Con la seconda damina, facciamo ora un salto più verso i lidi nostrani, ed andiamo a riscoprire un volto che fu piuttosto noto intorno agli anni '50 e '60:
 
Questa è Marisa Del Frate, anch'ella apprezzata cantante ed attrice di casa nostra, protagonista anche di diversi varietà televisivi, al fianco di famosi comici (Gino Bramieri, Raffaele Pisu, Erminio Macario e altri).

Siamo giunti così al termine anche dell'odierna puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”. Vi saluto e vi invito a fare un salto tutti insieme sul blog di Kika, per scoprire come, da brava “chef  estetica”, ci ha cucinato la poetica di  Itzchak Tarkay in salsa modaiola.

2 commenti:

Kika ha detto...

Eccomi, ho appena pubblicato e sono corsa a vedere cos'avevi tirato fuori dal tuo cappello artistico :)
Liza Minnelli, è vero!!
Ora che ci penso mi ricorda anche Stepfanie Kramer, la Mac Call del telefilm Hunter: http://upload.wikimedia.org/wikipedia/en/6/67/Hunter_Cast.jpg

Ma ha una languidezza che riporta ancora a qualcun'altra, che però mi sfugge...
Anche stavolta di materiale ne hai tirato fuori: il giusto appunto sul richiamo ai Fauves ecc..., lo spunto di riflessione sul concetto del colore delimitato dalla linea... Su Tarkay io non ho indagato più di tanto, ma la sua storia culturale è interessante e mi ha fatto pensare che forse un po' del melting pot mitteleuropeo nella sua arte c'è finito, ma simbolicamente attraverso l'uso dei colori... o forse anche proprio in quell'aria così "amabilmente annoiata" delle sue muse, da donne di mondo d'altri tempi. E' come una sensazione che non so descrivere bene, spero di essermi comunque spiegata :)

Gillipixel ha detto...

@->Kika: grazie per questo bel commento in presa diretta, Kika :-) Dee Dee MacCall, è veroooo!!!!! :-) somiglia un sacco, ma non mi era venuta in mente :-) Ricordo benissimo Hunter e la sua fascinosa co-protagonista :-)

Ti sei spiegata benissimo, Kika perché una delle cose più belle dell'arte, secondo me, è proprio quando suscita quella sensazione che non si sa descrivere bene :-)

Questo Tarkay è stato una bellissima sorpresa...sulle prime, sì, ti vien da pensare: ma questo qui, sempre con 'ste donnine e basta? :-) Poi però osservando con un po'più di pazienza, considerando anche la sua storia personale, e tutto...beh, viene fuori giusto quella sensazione che non si sa descrivere bene :-) ma che è sempre sintomo di un certo valore artistico :-)...ti accorgi che è un rimanere in superficie (sul piano delle tematiche) che non può non essere voluto...è come una dichiarazione di ricerca sulla forma pura (con tutto il rispetto per le donnine, che una loro personalità ce l'hanno pure loro :-)

Kika, sei sempre più brava a scovare artisti minori, meno minori di quel che sembrano :-)

Bacini minori :-)