venerdì 5 settembre 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Claude Monet (1840 – 1926)

Le déjeuner sur l'herbe (1865) - Claude Monet

Le déjeuner sur l'herbe (1865) - Claude Monet (dettaglio)

Apro la puntata odierna della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” con un aneddoto faceto, tanto per capire il genere di “strampalato storico dell’arte” che sono. Quando Kika mi ha comunicato che per questa settimana aveva scelto come dipinto “La colazione sull’erba” di Claude Monet (Parigi, 14 novembre 1840 – Giverny, 6 dicembre 1926), del 1865, io ho regolarmente inteso sbagliato, pensando a “La colazione sull’erba” di Édouard Manet (Parigi, 23 gennaio 1832 – Parigi, 30 aprile 1883), del 1863. 
Le déjeuner sur l'herbe (1863) - Édouard Manet

Il fatto è che da sempre confondo Monet con Manet. Non posso farci niente, è un'impresa culturale eccessiva, che va troppo oltre le mie capacità. Non mancasse questo, hanno pure avuto l'idea di andare a dipingere un quadro con lo stesso titolo e soggetto. A dire il vero, quello di Manet è il più famoso dei due, in questo caso. Forse anche perché nel mezzo della compagnia degli allegri amici riuniti in picnic, campeggia una donna completamente nuda. Roso allora dal dubbio, mi ero ripromesso di chiedere chiarimenti a Kika, quando sono stato folgorato dalla mia stessa balordaggine potenziale: come poteva essere quello di Manet, se c'è una donna nuda? Come avrebbe fatto Kika a interpretare in chiave moderna il suo vestiario, se non c'era vestiario alcuno? 

Sulla buffa scia di queste titubanze interiori, mi accingo dunque a dire due cose su Monet. Parlare di lui è impresa assai ardua. Si tratta di uno dei colossi dell'impressionismo, colui che ha portato la ricerca pittorica di questa fondamentale corrente artistica alle sue estreme conseguenze. L'argomento è dunque vastissimo. Con l'aiuto della mia solita guida fidata, Giulio Carlo Argan, e di un commentatore d'eccezione, Alessandro Baricco, provo a raccontare qualcosa, focalizzando il discorso più che altro sull'impressionismo in generale.

Dove volevano andare a parare in sostanza gli impressionisti, con il loro discorso figurativo? Argan ci ricorda lo scopo della loro ricerca: «...rendere la sensazione visiva nella sua assoluta immediatezza...». Essi intendevano andare oltre la «...nozione comune, per cui il riflesso di una cosa è meno certo e fermo della cosa...[...]...il problema non era la natura (l'oggetto), ma l'attività del soggetto che percepisce. Monet ha il coraggio di eliminare tutti i tramiti tra sé e l'oggetto...[...]...uno studio che, in ultima analisi, mira a separare l'immagine, come fatto interiore, dall'esteriorità della cosa...».

Non bisogna dimenticare a questo punto che circa due secoli prima Renè Descartes aveva di fatto inaugurato la filosofia moderna, fissando il colossale punto fermo del suo rivoluzionario “cogito”. Cartesio, ponendo in essere il dubbio più “radicale” mai concepito da mente umana, ci dice: a stretto rigore filosofico non possiamo affermare che dietro alle cose percepite o pensate, esistano effettive entità reali, sussistenti indipendentemente da quello che a noi “consta”. Nessun altra “risorsa” filosofica è riuscita in seguito a bypassare questo scoglio. Nemmeno la vertiginosa levatura del genio di Kant. Il “cogito” cartesiano è stato shakerato, emulsionato, camuffato, imbellito, blandito in mille modi, ma rimane ancora oggi un ostacolo insormontabile per il pensiero.

Ecco, l'attività degli impressionisti può a mio avviso anche essere vista come un modo di fare i conti col “cogito” cartesiano. Intendiamoci: può darsi che Monet, Renoir e compagnia non avessero mai approfondito in modo particolare il pensiero di Cartesio. Ciò che importa è che la loro ricerca si immerge a capo fitto nelle tematiche del discorso della modernità iniziato dal filosofo francese. Se riguardo alla “cosa in sé” non è possibile affermare nulla di “fondante”, senza incappare nel rischio di “dire cose sbagliate”, gli impressionisti si focalizzano giustamente sul crinale principale che in pittura intercorre fra realtà e coscienza, ossia il momento della pura visione.

A proposito di questo punto, mi viene da fare un'osservazione, riferita però a “La colazione sull'erba” nel nostro caso “sbagliata”, ossia quella di  Édouard Manet. Anche se Manet ci teneva a non essere confuso con gli impressionisti (non espose mai nei saloni da loro organizzati), possiamo considerare la sua ricerca indirizzata verso i medesimi obiettivi di questi ultimi. E, è pure vero, la sua scelta di inserire una donna nuda nella famosa composizione sarà stata ispirata anche ai grandi dipinti mitologici dei maestri veneti del passato (Giorgione e Tiziano), come tutta la critica dà ormai per certo. 

Ma la mia riflessione va nella direzione di una scelta pittorica più legata al senso creativo intimo di quell'opera: a mio avviso, Manet ritrasse una donna inopinatamente nuda in quel contesto, per sostenere la “neutralità” di tutte le superfici accarezzate dallo sguardo. Il suo interesse era talmente indirizzato al fenomeno puro della visione, che con questa scelta provocatoria, egli voleva sostenere come la superficie di un corpo nudo, in questa ottica, non avesse nulla di diverso da quella di un albero, dalla superficie erbosa del prato e così via. Anzi, in questo senso, Manet forse va addirittura oltre. Pone nel riquadro in basso a sinistra della scena, proprio sotto il corpo scoperto della signora, una composizione di frutti, coi suoi vestiti abbandonati e altri ammennicoli festaioli, talmente vivida e visivamente “autorevole”, da farla diventare un fulcro di attenzione che quasi annulla, in quanto a forza espressiva, l'energia pressoché svuotata del corpo nudo.

Tornando a Monet, abbiamo detto che fu questo artista a portare ai suoi estremi la ricerca impressionista sul fenomeno della “visione”, intesa nella sua essenza ontologica, ossia nel suo ruolo di “movente fondamentale dell'essere”. Alla vicenda biografica di Monet è legata infatti un'impresa leggendaria. E' noto che il pittore trascorse gli ultimi trent'anni della propria vita a dipingere ripetutamente e quasi ossessivamente un medesimo soggetto: le ninfee del laghetto che sorgeva nella propria tenuta di campagna, a Giverny. A cosa mirava la ripetizione all'apparenza insensata di un soggetto così modesto? Ce lo spiega una bellissima suggestione contenuta nel caleidoscopico romanzo “City” (1999), di Alessandro Baricco.

Cosa serviva a Monet per portare la “logica impressionista” alla sua massima esaltazione, ossia per imbastire un'indagine il più possibile approfondita del fenomeno visivo nella sua purezza? Gli serviva annullare il soggetto ritratto, condurlo al punto estremo della propria “neutralità”. 

Ci aveva già provato agli inizi degli anni '90 dell'800, coi covoni di paglia ripresi a ripetizione, in ogni ora della giornata, nelle diverse stagioni, con ogni tipo di luce possibile. Ma fu con le Nimphéas che il progetto di Monet si distese nel più ampio respiro immaginabile.
 Covone d'inverno (1891) - Claude Monet
 Covoni a fine estate (1891) - Claude Monet
Covoni d'estate (1890) - Claude Monet

Racconta Baricco in “City”: «...Per dipingere il niente, prima doveva trovarlo. Monet fece qualcosa di più: lo produsse. Non dovette sfuggirgli che la soluzione del problema non era ottenere il nulla saltando il reale (qualsiasi pittura astratta è in grado di fare una cosa del genere), ma piuttosto ottenere il nulla attraverso un processo di progressivo decadimento e dispersione del reale. Capì che il nulla che cercava era il tutto, sorpreso in un istante di momentanea assenza. Lo immaginava come una zona franca tra ciò che era e ciò che non era più...[...]...Per ottenere un simile, ambizioso, risultato, Monet si affidò a un trucco [...] la cui devastante efficacia è testimoniata da qualsiasi vita matrimoniale. Nulla può diventare così insignificante come qualsiasi cosa se ti ci svegli di fianco tutte le mattine della tua vita...[...]...Creò uno stagno di ninfee nel preciso punto in cui gli sarebbe stato impossibile evitare di vederlo...[...]...Monet aveva bisogno del nulla, affinché la pittura potesse essere libera di ritrarre, in assenza di un soggetto, se stessa. Contrariamente a ciò che un consumo ingenuo potrebbe suggerire, le Nymphéas non rappresentano delle ninfee, ma lo sguardo che guarda. Sono il calco di un determinato sistema percettivo...».

Molti lunghi pannelli risultanti da anni ed anni di instancabile lavoro attorno al tema delle ninfee, furono donati da Monet alla Francia, in onore della Vittoria nella Grande Guerra. Vennero assemblati in un maestoso allestimento a pianta ellittica, nel Museo dell'Orangerie, ma il pittore non fece in tempo a vederlo, perché morì prima della conclusione dell'opera. Questo estremo omaggio all'opera del maestro è stato definito da alcuni “la cappella Sistina dell'Impressionismo”.
Les Nymphéas  (1899 - anni '20 del '900) - Claude Monet - Musée de l'Orangerie, Parigi

A dispetto di una così ricca sezione critica, l'odierna indagine fisiognomica relativa a “La colazione sull'erba” di Monet si è rivelata un po' scarna. La bassa risoluzione delle immagini reperite su internet ha ostacolato alquanto le ricerche. Mi sono focalizzato sul “viso più visibile” (Aaahhh!...il “senso della frase” alla Andrea G. Pinketts...), ossia quello della donzella accovacciata con vestito bianco a pois neri, intenta a prendere in mano un piatto. 
Il meglio che son riuscito a fare in fatto di somiglianze, è quanto segue.

Il volto è quello notissimo della comica toscana Athina Cenci, protagonista di tante scenette e divertenti film, schierata ad inizio carriera nella formazione cabarettistica dei Giancattivi (con Francesco Nuti e Alessandro Benvenuti), e poi in seguito anche come “solista” dell'umorismo.

Si conclude così anche questa puntata delle rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”. Nella speranza di non aver preso “Monet per Manet”, nel salutarvi, vi invito anche all'immancabile visita al blog di Kika, per ammirare le sue magie modaiole di oggi.

4 commenti:

Kika ha detto...

Eh eh, me lo sentivo che c'era da confondersi, infatti l'ho scritto anche nel mio post :)
Monet-Manet sono rimasti legati l'uno all'altro in entrambi i nostri articoli... e come di consueto sei stato molto più approfondito di me, giustamente (andar per pensieri porta lontano :) Sei anche stato più preciso nell'indicare che Manet non volle essere definito Impressionista; io ha fatto di tutta l'erba (della colazione ;) un fascio, basandomi sui ricordi scolastici. Che, a dire il vero, mi parlavano di lui come di un pre-impressionista. Al di là dei termini tu hai ben evidenziato che qualcosa di fondo nella loro ricerca artistica li accomunava, perciò mi sento un po' sollevata nel mio errore di pseudo-storica dell'arte ;)

Gillipixel ha detto...

@->Kika: che Manet non fosse proprio a rigore impressionista, l'ho scoperto per l'occasione, Kika :-) credo che la differenza, sia proprio questione di pura classificazione critica :-) queste definizioni tra l'altro vengono sempre anni dopo, sono posteriori, servono più a fare ordine nel discorso della storia dell'arte, ma non è che siano così importanti...ogni grande artista sta sì in una corrente, in un flusso culturale, ma credo che ogni esperienza faccia storia a sé...

Poi, c'è da dire che con tutta la bravura che sempre dimostri giocando con la moda, per una volta hai potuto permetterti di "fare di tutte le erbe un fashion" :-D

Ecco, dopo questa bella freddura, posso anche ritirarmi a vita privata :-)

Sì, Manet e Monet erano molto più affini di quanto le fredde classificazioni non facciano supporre, e sarà un piacere per me continuare a confonderli anche in futuro :-)

Ciao collega :-) grazie

Bacini a fashion :-)

Kika ha detto...

"di tutta l'erba un fashion", ah ah ah :)) Ti è uscita proprio a fagiolo questa! :))

Gillipixel ha detto...

@->Kika: :-)