sabato 25 ottobre 2014

La lingua batte dove il marcia piede


Viviamo tempi mediocri. 

Le epoche segnate da una labile identità danno facilmente adito a fragilità linguistiche. Non fa eccezione questo nostro periodo confuso e timorato di zio.

Una delle abbinate verbali più infelici e nauseabonde che mi sia toccato di sentire negli ultimi tempi è la famigerata espressione “jobs act”. Affidandosi a due paroluzze così estranee al nostro lessico familiare, si pone fin da subito la questione nella prospettiva più sgradevole. 

Se c’è un aspetto del sentire comune che più s’impone in questa fase storica (a torto o a ragione), è proprio quella diffusa impressione di essere in qualche modo manovrati dall’esterno. Di essere succubi di qualche potere forte, ubicato in un inarrivabile empireo extranazionale, rispetto al quale le possibilità per l’uomo della strada di avere voce in capitolo si riducono davvero al lumicino. Per ogni questione di una certa importanza per le vite delle persone, c’è sempre qualcuno che «…ce lo chiede…». Ce lo chiede l’Europa, ce lo chiedono i mercati, ce lo chiede il patto di stabilità, ce lo chiedono le agenzie di rating, il Fondo Monetario Internazionale, e così via.

Mossa più “astuta” non si poteva dunque escogitare, trattando di una questione così fondamentale per la gente come quella del lavoro, che andare ad intitolare uno dei più importanti provvedimenti in merito, con un’espressione inglese. Quasi come dire: «…ti voglio proprio trattare in confidenza, ti metto a tuo agio: cominciamo che ti parlo in una lingua non tua e che conosci poco…». Non male come inizio.

In poche parole, una legge che, dal punto di vista del vocabolario, nasce fin da subito come figlia della lurida. 

Il giornalista del Corriere della Sera Gian Antonio Stella ha scritto una bella annotazione riguardo a questo malaugurato vezzo della nostra politica di inglesizzarci la vita, su questioni che dovrebbero invece risultare ben chiare anche alle persone più semplici, dato che la loro quotidianità viene spesso influenzata pesantemente da quegli argomenti. Non si tratta di una novità, ci dice Stella, è solo cambiata la forma. Già nel 1600, per interposta ottocentesca voce manzoniana, l’umile Renzo si lamentava del latinorum sciorinato dai saccenti della sua epoca (i vari Don Abbondio e Azzeccagarbugli del caso) per ammantare di fumoso mistero e di altisonante alone gli aspetti amministrativi, di potere e politici più scomodi. Oggi succede esattamente la medesima cosa. Soltanto che al posto del latinorum, è subentrato l’inglesorum. 

Nel caso del “jobs act”, ad infelicità verbale si è aggiunta tristezza espressiva e beffarda confusione. “Jobs act”, pur essendo all’apparenza espressione innocua e lapidaria, dà adito infatti ad una serie di biascicamenti verbali e indecisioni di pronuncia. C’è chi elide la “s”, trasformando “la cosa” in “job act”. Chi la “s” la fa slittare in fondo, per un’ulteriore metamorfosi in “job acts”. E di questo non si può fare certo una colpa a chi incappa in questi errori: mi obblighi a parlare inglese? E chi minchia se ne sbatte, sono italiano io, mica inglese.

A questo si aggiunga che nemmeno i politici stessi che la propongono, sanno pronunciare correttamente l’espressione. La “a” di “act”, rimane dunque candidamente una “a” piena sulla bocca di tutti gli italiani (dovrebbe essere invece una specie di “ǽkt”), e alla fine ci si ritrova col pacchiano risultato di aver scomodato una lingua straniera, senza sapersene nemmeno servire. Come farebbe un tizio che si compra una Lamborghini Huracàn LP 610-4, per usarla ai 10 all’ora su una carraia di campagna.

Pronunciata poi senza capire fino in fondo, senza possedere mentalmente il concetto di quanto si va dicendo, l’innocente accoppiata di parole assume una magmatica tendenza ad imbastardirsi in surreali significazioni involontarie. 

Una volta scivolata la “s” in fondo alla fila delle lettere, o eliminata del tutto, ci vuole un attimo a fondere il suono per comodità, dando vita a una bizzarra mutazione dell’ectoplasma linguistico: “job act” diventa “jobact” o “jobacts”, di fatto “giobàct”. Qui la neonata parola innesca tutta una serie di reminiscenze fanciullesche, un retrogusto sciabattato di pedanti rimbrotti della mamma, evocanti un odioso clima in cui soffia perenne il petulante vento “maestrino”: «…Pierino!!! Quante volte te l’ho detto di non entrare in casa con le scarpe, che ho passato la cera: mettiti le giobàcts!!!…».

Oppure, per altre strane suddivisioni sillabiche in fase di pronuncia, ecco che la fantomatica entità verbale si trasforma ancora in un anti-eroe un po’ puzzone, Jo Bact (all’anagrafe Giovannino Batteri, anche lui col vizio dell’anglofilia), una sorta di viscidone poco avvezzo all’igiene, il militante della saponetta ignota, l’ascella più tremenda del West. 

Godzilla contro Jo Bact, dunque? Le giobàcts nuove dell’imperatore? A piedi nudi nel parco? Ma no, mettiamo le giobàcts per una volta. Insomma, come direbbe il colonnelo GilliKurz, assiso in meditabonda osservazione lungo il Fiume dei Linguaggi: «…L’orrore…l’orrore...».



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