venerdì 28 febbraio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: dizionario deromantico


Questa settimana, per motivi “operativi”, la rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” si presenta in modo un po' anomalo. Diciamo che per una volta facciamo un'eccezione. La scelta di Kika è caduta su un dipinto che non dava adito alla ricerca di un volto famoso dell'attualità ("Ragazza sul ponte della nave", del pittore americano Maurice Prendergast), per cui vi rimando senz'altro all'interessante proposta di moda ed arte fatta da Kika sul suo blog, e se vi va, vi invito a leggere quello che mi è venuto in mente per l'occasione, tra l'altro non necessariamente legato a questioni artistiche intese in senso più strettamente tipico.

La settimana di Kika è stata ispirata un po' tutta al tema del mare d'inverno ed anche il suo intervento su moda e pittura va in questa direzione. “Il mare d'inverno”, come ha ricordato Kika, è il titolo di una bella canzone di Enrico Ruggeri.

Avevo già parlato tanto tempo fa di come le parole e i motivetti delle canzoni a volte si insinuino nella mente in misura veramente molesta e, come terribili cagnetti tignosi, persistano col mordere il polpaccio dell’immaginazione, tornando imperterriti ad angariare lingua e palato, i quali quasi non possono fare a meno di ricalcare in modo ossessivo note e sillabe in questione.

Funziona così: senti alcuni secondi di una canzone alla radio, alla tele, oppure leggi distrattamente il suo famoso titolo da qualche parte e zac!...il fatidico contagio è innestato. Da qual momento in poi la devi cantare e ricanticchiare, di fatto, o anche solo mentalmente. L'impulso è irrefrenabile, e non riesci a placarlo se non dopo parecchie ore di lieve rimuginar canoro interiore.

Una cosa del genere mi è successa leggendo l'espressione “il mare d'inverno”, citata da Kika. Da quell'attimo, ho avuto Enrico Ruggeri direttamente trapiantato nel cranio come una protesi melodica. La cosa più buffa di questo fenomeno, mi succede dopo un bel po' di tempo di reiterazione mentale delle parole del motivetto. Ad un certo punto, sento il testo talmente frusto e ritrito in testa e sulla lingua, che questo si anima di vita propria, e finisce per distorcersi in stranissime varianti verbali senza senso.

Potrà sembrare la solita gillipixata irrilevante, ma non dimentichiamo che quella che potremmo definire come “spontaneità linguistica” è una delle tematiche più care ai surrealisti. Fra le sue teorie, Andrè Breton (Tinchebray, 1896 – Parigi, 1966) parla di “automatismo psichico”, riferendosi al libero affiorare allo stato conscio di parole casuali, lasciate scaturire senza intermediazione razionale e senza il filtro di una selezione intenzionale. Gli esperimenti di “scrittura automatica” proposti dai surrealisti conservano intatta la loro modernità e sono particolarmente affascinanti, anche perché ciascuno ha la possibilità di confrontarsi con questo tipo di curiosa pratica. Basta mettersi davanti ad un foglio con una penna in mano, o ad una pagina word bianca, e cominciare a scrivere ogni parola od espressione che passa per la mente, senza pensare minimamente al significato, o addirittura, affidandosi alla sola sonorità delle sillabe risultanti, magari creando dal nulla neologismi fatti di puro suono verbale.

Ci ho provato alcune volte, e la cosa, rivisitata in modalità gillipixiana, risulta alquanto divertente (almeno per me...). Improvviso un esempio al volo: «...Il berigullo smircofonico demirzinava estrobeppo e cingualloso nel feriluvento delle gardibuone sicomeritevoli...» e così via.

Ma tornando alla canzone “Il mare d'inverno”, come ben saprete ad un certo punto i versi del testo recitano: «...questo vento agita anche me...». Ed ora preparatevi a fare una gentile ghignata, perché dopo ore di biascicamento mentale, ecco come si sono mutate quelle parole nella mia testa: «...questo vento “rogita” anche me...». Non ha nessun senso, ma lo trovavo molto buffo, con quel suo vago riferimento a questioni edili-notaril-catastali che meno sentimentali di così non si potrebbe, e sono certo che lo stesso Breton in persona sarebbe stato fiero di me.

In generale, a partire da questo leggiadro episodio di “spontaneismo verbale”, mi è venuto da riflettere su un'altra questione sempre legata alle canzonette. Come si sa, molte canzonette (forse non quella di Ruggeri, d'accordo) sono spesso il trionfo della futilità pura, un inno spudorato al “banalismo” romanticheggiante più ritrito. La cosa suona quasi sempre molto fasulla, ma la forza della musica spesso riesce a passare sopra a tutto, tanto che non ci facciamo quasi più caso a certe boiate melense talvolta spacciate attraverso una bella melodia. Però la mellifluità viene intanto assorbita, e probabilmente questo finisce per influire sulla sincerità dei rapporti fra le persone. Ecco allora che dilaga un romanticismo di maniera, s'insinua nelle menti una visione sentimentalistica di bassissima lega, che tutto ammanta di un velo falso e verbalmente attaccaticcio (invece che in falsetto, è proprio il caso di dire: canzoni cantate in falsotto...).

A questo punto, l'«automatismo psichico» di Breton non figurerebbe più soltanto come una stravagante sperimentazione artistica, ma potrebbe funzionare come vero e proprio antidoto a questo ozioso meccanismo, un genuino strumento adottabile per una sana “deromanticizzazione” della realtà. Volete mettere quanto ci guadagnerebbero, ad esempio, i rapporti fra due persone che si amano, se invece di dichiararsi a vicenda uno dei soliti ritornelli da repertorio stantio, tipo «...amore, sei la luce dei miei occhi...», optassero invece per un ben più franco e pirotecnico «...amore, vieni qui che ti rogito tutta...»? E lei di rimando: «...Sì, caro, mi piaci tanto quando sei così estrobeppo e cingualloso...».

Nel rinnovare così l'appuntamento ad una prossima, più canonica, puntata di “Le muse di Kika van per pensieri”, rimane da domandarsi cosa c'entrasse tutto questo col dipinto scelto oggi da Kika. Assolutamente nulla, ma questi sono i piacevoli rischi che si corrono andando liberamente per pensieri.



mercoledì 26 febbraio 2014

Parola di Gillipixel


Cari amici viandanti per pensieri, qualche tempo fa vi ho raccontato di uno stupefacente fenomeno che sono solito osservare nelle mie passeggiate campagnole solatie. Si tratta di un piccolo spettacolo sorprendente, ma talmente fuggevole e difficile da fermare sul velo di una precaria impixellata fotografica, che a parlarne si corre il rischio di passare per un visionario sparapalle a vapore, millantator trombone che tutto da solo se la canta e se la suona.

Mi riferisco al leggero, infinitesimale ma infinito manto di ragnatele posato su ogni dove campagnolesco a perdita d'occhio. Il fenomeno è talmente incredibile ed al contempo nascosto, che se lo racconti a chi non l'ha mai visto, puoi appunto far la figura di un gran fanfarone coi fiocchi. La sua massima espressione è osservabile nei campi arati o in qualche modo lavorati in attesa della semina. Tra una zolla e l'altra, tra un montarozzo “terreo” ed il suo omologo vicino, si dipana tutta un'incredibile fitta trama di micro-filature, che intesse un dedalo di esili ponticelli di collegamento fra i diversi mini-promontori, un panno ragnatelare multidiffuso e onnidirezionato.

Vedete che contorsioni verbali tocca fare per rendere l'idea, tanto è insolita e singolare questa sottile manifestazione della natura. E non è curiosa e basta, ma anche coglibile solamente in particolari condizioni. La rete di ragnatele è visibile infatti quando c'è un bel sole e l'aria è limpida, ma solo se si osserva la superficie interessata in controluce. Circostanza questa che fa pienamente a pugni con le esigenze della ripresa fotografica.

Nonostante tutto ciò, nei giorni scorsi, in qualche modo mi è riuscito di cogliere il vello di ragnatele in un paio di foto. Non sarà mai come vedere l'effetto direttamente dal vivo, ma credo che le immagini rendano lo stesso l'idea. In questo caso i filamenti sono sospesi fra uno stelo d'erba e l'altro, ma lo stupore è sempre garantito.
Insomma, non vi avevo raccontato una balla, o perlomeno, non tanto grossa come sembrava in apparenza. Tenete conto che la foto coglie solo una minima parte dei filamenti effettivamente distribuiti su tutta la pelliccia erbosa.

Per oggi è tutto. In una giornata in cui non avevo nulla da dire, ho provato ad ogni modo a raccontare qualcosa.



sabato 22 febbraio 2014

Per un “arf!” di Pluto

 L'«epifanista» più fantasioso sa trarre spunti d'illuminazione anche da fonti letterarie «bassolocate». Persino i fumetti più popolari possono riservare in questo senso gradite sorprese.

Ogni tanto mi piace acquistare un albo di Topolino, così, forse per rinverdire i fasti della mia bambinitudine. Mi ero allontanato da questa saltuaria usanza, a causa di un'infelice rilegatura che negli ultimi tempi ai giornalini di Topolino veniva affibbiata. Con questo tipo di confezionamento del volumetto, quando lo si apre per sfogliarlo, nel punto dell'attaccatura dei fogli si forma una sorta di fisarmonica di pieghe ostili, che rende sgradevole la lettura delle vignette più interne.

Non ho mai capito come una grande casa editrice possa passare sopra così alla leggera ad un evidente difetto del proprio prodotto talmente sfacciato. Lo stesso infelice destino hanno subito i giornalini di Diabolik. Ogni tanto mi piacerebbe prendere ancora qualcuno anche di quelli, ma la medesima magagna delle pagine mal rattrappite mi frena regolarmente e desisto. Per me è una specie di insulto al lettore, è come se un venditore di moto ti consegnasse uno scooter con le ruote quadrate, non so, una roba del genere. E' come se l'imbianchino pagato profumatamente ti tinteggiasse le pareti pattuite sbattendoci direttamente contro secchiate di colore.

Ecco dunque che vedendo alcuni giorni fa un bel volumetto di Topolino in edicola, una raccolta di storie del passato, tutta ben rilegata come ai vecchi tempi, con le pagine che si sfogliano belle lineari e piane che è una meraviglia, non me lo sono lasciato scappare.

La cosa ancor più bella è stata che, ad un certo punto di una gradevole storia del 2002, ho rinvenuto un'epifania del lettore in grado di farmi riflettere su temi di levatura non del tutto trascurabile. L'episodio s'intitola «Pippo, Pluto e il calcio-quiz». In estrema sintesi “criptata” (per non togliere a nessuno il piacere della lettura), la storia è questa: a Pippo capita di essere concorrente ad un quiz televisivo. Trattandosi di Pippo, le cose vanno ovviamente in maniera più che stramba. In qualche modo si giunge alla domanda finale da 100mila dollari. Con il contributo semi-involontario di Pluto, Pippo risponde correttamente, ma per un cavillo del regolamento, pur venendo riconosciuta la validità della risposta, non gli viene assegnato il compenso in denaro.

E' a questo punto che arrivano i tre riquadri disegnati, che mi hanno colmato di meraviglia fumettistica. Uscendo dagli studi televisivi, Topolino dice a Pippo (scrivo in stampato maiuscolo, perché è così che parlano i personaggi dei fumetti): «...NON SEMBRI MOLTO DISPIACIUTO DI NON AVER VINTO I CENTOMILA DOLLARI...».

Pippo risponde: «...TANTO NON AVREI SAPUTO CHE COSA FARNE! HO GIÀ TUTTO QUELLO CHE MI SERVE!...A ME INTERESSAVA DIMOSTRARE LA MIA COMPETENZA...E GRAZIE A PLUTO CE L'HO FATTA, RISPONDENDO ALLA DOMANDA FINALE!...».

E infine, meravigliosa chiosa conclusiva di Pluto: «...ARF!...».

Sarà incredibile a dirsi, ma questi brevissimi e semplicissimi stralci di dialogo fra un cane ed un topo antropomorfizzati, con quella stramba postilla posta a suggello del discorso dal loro cane regolarmente congelato nel suo zoomorfismo d'origine, sono stati capaci di regalarmi momenti fuggevoli di lieve poesia svagata. Trovo anche che siano parole di strettissima attualità. I personaggi di Topolino rappresentano un po' tipi umani inglobati in fogge di simpatiche bestiole gradevolmente caricaturali. Il “tipo” di Pippo è il sempliciotto con la testa perennemente fra le nuvole, l'ingenuotto non privo di una propria saggezza di vita. In queste sue parole apparentemente banali, si celano infatti sprazzi di sapienza profondissima.

Pippo non ha bisogno di centomila dollari, perché ha già tutto quello che a lui serve. Tutto l'opposto della mentalità preminente nelle zucche dei principali responsabili dell'attuale situazione di crisi. Con questo non voglio indicare la strada di un “sempliciottismo” pauperistico assoluto e di un'indifferenza per le mete ambiziose, come sicura soluzione di tutti i mali. L'identità delle società funziona un po' come le identità dei singoli individuo: servono tantissime componenti diverse per ottenere un cocktail caratteriale di un certo valore. Con la sola ingenuità di Pippo probabilmente si va poco lontano, sono necessari anche la lucidità e la scaltrezza di Topolino, l'ambizione e l'arrivismo di Paperone e Rockerduck, la cocciutaggine di Paperino.

Ma oggi come oggi, in questo periodo storico particolare, forse ci troviamo in un frangente epocale che necessita in modo specifico di più Pippi e meno Paperoni. L'ossessione per la ricchezza fine a se stessa, l'ansia per l'incameramento selvaggio di grana sonante, la patologica spinta al rimpinguarsi le tasche “ad sfondamentum”, sono tutti atteggiamenti che fanno il male di molti e l'illusoria felicità di pochi. Più pippità e meno paperonezza dunque, sono gli ingredienti che servono. Uniti alla sapienza profonda di riuscire ad apprezzare l'inestimabile valore contenuto in un «arf!» di Pluto.


mercoledì 19 febbraio 2014

Citando Walt Whitman: «...Ma va' a ciapà Irat»



Mi mettono sempre addosso una discreta dose di tristezza quelle pubblicità che ti vengono a magnificare il loro prodotto quasi fosse una questione di vita o di morte. Se non lo possiedi sei perduto, finito, annichilito. Sei una merdaccia, un escluso, un paria, un infelice indegno di questa società.

Di solito sono particolarmente specializzate in questa frullatura di maroni, le case automobilistiche. «...Ah, se non sali su quel modello...ah, se non possiedi quella vettura...ah, se non guidi tenendo in mano quel volante...»...Ma vai ad “evacuare”, va'!...

Si sintonizza volentieri su questa frequenza spottaiola anche una nota ditta di aggeggi multimediali, il cui nome non serve neanche citare. Una delle ultime performance più trombonesche mi pare proprio quella che si apre con le parole di un celebre film: «...Citando Walt Whitman...» e poi giù a sciorinare una sequela di magniloquenze poetiche assai spropositate, se contestualizzate alla dimensione in fattispecie, per la quale basterebbe semplicemente dire: «...Ti voglio vendere 'sto coso qui, funziona molto bene, ti interessa?...».

E dire che «L'attimo fuggente» è uno dei miei film preferiti di sempre (fatti salvi forse alcuni eccessi di melensaggine). E dire che la possanza declamatoria di Walt Whitman in molti dei suoi passi mi esalta. Eppure se si prendono le due cose e le si frullano insieme in un pastone pubblicitario, ecco, va a finire che mi mettono tristezza. Il prodotto pubblicizzato è già buono di per sé, immagino. Che bisogno c'è di propinare alla gente queste patomime melassoidi per invogliare all'acquisto? Veramente dopo aver sentito quella roba lì, uno dovrebbe desiderare di avere un certo oggetto?

Boh...evidentemente la cosa funziona, e sono io totalmente fuori dal mondo: me ne faccio una ragione...

Riflettevo un po' su queste cose e sulla dura vita del pubblicitario, che per campare deve arrabattarsi da mattina a sera per far credere alla gente che gli asini volano, quando, sempre a proposito di blandizie e réclame, mi arriva una mail con un'inequivocabile proposta commerciale: «Penis Growth Promo – New genetical engeeniring breakthrough published».

Il loro slogan poi promette: «No hassle, no pain, no exercises - the new wonder product is here». E non immagino nemmeno pensare a cosa si riferiscano quando sostengono che ti promettono di evitare l'incombenza degli esercizi nell'ottenimento del risultato.

Così, dopo un primo attimo di lusinga diffusa per tutto il mio essere, nel pensare che, ma guarda un po', al mondo c'è persino un'intera equipe di ingegneri tutta preoccupata per me riguardo a quella cosa lì...e dopo aver anche soppesato per qualche secondo l'idea di rispondere cortesemente: «...no, grazie, sono a posto così...»...mi è tornata alla mente la faccenda di Walt Whitman, prezzolato suo malgrado e ridotto ad involontario imbonitore da mercato.

Mi sono detto: ma perché i pubblicitari non si parlano fra loro? Ma guarda che spreco di energie, se solo si fossero incontrati...

Là abbiamo un'equipe di spottaroli eruditi, sensibili, che vanno a tirare in ballo addirittura una tiritera in alta poesia, laddove basterebbe forse essere più concreti e diretti, più terra terra, più parlanti come si mangia.

Qui invece, una banda di pubblicizzatori che va clamorosamente, troppo frettolosamente, al sodo, parla di ingrossamenti come parlare del tempo, tira fuori l'«argomento» così senza ritegno...e le misure...ah, se contano le misure, signora mia!

Eppure, sarebbe bastato che i due gruppi di creativi si confrontassero e ne sarebbe sortito un connubio da favola. Quelli di Walt Whitman avrebbero potuto suggerire a quelli col cervello un po' all'«ingrosso», che il sommo bardo americano scrisse alcuni versi perfetti per accompagnare le mirabilia lievitanti del loro prodotto.

Nel capolavoro «Foglie d'erba», più precisamente in un passo del capitolo «Canto di me stesso», intorno al verso 530, così recita il poeta:

«...Se adorerò una cosa più che un'altra sarà l'estensione / del mio corpo o ciascuna sua parte / Sarai tu, traslucida forma di me! / Voi, recessi ombrosi e sporgenze! Tu, saldo coltro virile! / Sarete voi, qualsiasi cosa rivolta a coltivare me! / Tu, ricco mio sangue! Il tuo latteo ruscello, pallida / spremitura di vita!...».

E ancora, intorno al verso 1170:

«...Oh spanna di giovinezza! elasticità sempre tesa! / Oh età virile, equilibrata, florida e piena...».

Lo giuro, non mi sono inventato niente, ho solo riportato sillaba per sillaba i versi precisi (edizione BUR Poesia Rizzoli del 1991, traduzione di Ariodante Marianni), e per chi non lo sapesse “coltro” precisamente significa “lama tagliente dell'aratro disposta poco avanti al vomere (e serve a tagliare verticalmente la fetta di terreno)”...e qui mi pare proprio che il vecchio Walt si sia spiegato più che bene...

Un po' alla maniera del grande cantore dell'americanità, viene dunque da concludere: «...Ah spreco di energie! Ah, se vi foste parlati!...».

Oppure, sempre citando Walt Whitman: «...Ma va a da' via Ipéd...».



lunedì 17 febbraio 2014

Abbondanti dosi di Dostoesvkij, prima e dopo i pasti...

 

E' questo un periodo di classiconi della letteratura, per me. Dopo la meravigliosa lettura del capolavoro di Fëdor Dostoevskij «I fratelli Karamazov», sto ora affrontando un altro dei colossi del grande autore russo: «L'idiota». Ma non è di tematiche presenti nelle due opere che mi piacerebbe parlare oggi. Volevo invece dire due parole sul valore della “lettura lunga”.

In passato, raramente affrontavo libri di mole, diciamo indicativamente, superiore alle 400 pagine. Il motivo preciso non lo saprei dire. Forse temevo di perdermi nella sconfinata radura di parole e trama. Forse era per la mia memoria non poi così eccelsa, che non mi consentiva di abbracciare una quantità di dati superiore ad una certa soglia, in un periodo medio-lungo. O forse era solo timore reverenziale nudo e crudo.

Non che la mia memoria sia tanto migliorata nel frattempo, ma con gli anni ho imparato che dei grandi libri ci si può fidare. Anzi, è consigliabile fidarsi. Ad essi è giusto abbandonarsi. La guida per orientarci la troveremo cammin facendo, nel loro stesso interno.

Leggevo nei giorni scorsi un articolo di Roberto Cotroneo, su Sette, il supplemento settimanale del “Corriere della Sera”. Parla della dipendenza da internet, dei tanti timori suscitati dall'eccessivo utilizzo della rete, che rischia di provocare un effetto di estraniamento smisurato dal mondo, un eccesso di fuga mentale dal reale.

Il dato curioso sta nel fatto che le medesime preoccupazioni venivano nutrite nell'Ottocento proprio riguardo alla lettura dei grandi romanzi-fiume: «...Stare chiuso dentro una stanza per leggere pagine e pagine di storie immaginarie, a volte in apparenza futili, doveva essere una grande preoccupazione per una società come quella a cavallo tra Settecento e Ottocento. I lettori di romanzi non erano raffinati filosofi che si interrogavano su argomenti teologici o morali. E non erano neppure acuti filologi dediti alla lettura di versi poetici. I lettori di romanzi erano dei sociopatici, capaci di perdersi in storie inventate, che non volevano trasmettere insegnamenti o valori, ma cercavano di appassionare un pubblico, soprattutto di lettrici, incapace di separarsi da storie di adultere, di assassini, di tragedie e ingiustizie che affioravano dai bassifondi delle città, e guerre mal combattute, e sentimenti non supportati da valori certi...».

Eppure a partire da quel modo ottocentesco di fuggire dal mondo, sono stati mossi fondamentali passi per la storia della nostra civiltà. Intorno a quei romanzoni, aleggiavano sospetti simili a quelli paventati oggi nei confronti di internet. In qualche modo la storia si ripete.

Cotroneo prosegue citando certe soluzioni estreme che si pensa di aver trovato al giorno d'oggi per “curare” la dipendenza da internet, tipo “campi di rieducazione”, in Cina ad esempio. E conclude, ovviamente contrariato: «...Il web 2.0 apre confini e possibilità anche a ragazzi di piccoli paesi o delle periferie del mondo, dove l'occasione di dialogare con qualcuno non va oltre il bar della piazza centrale, dove gli anziani giocano solo a carte. I cinesi rieducano ruvidamente, noi inventiamo patologie e le applichiamo alle nuove tecnologie. È facile, semplicistico e anche pericoloso. Il web è libertà ma soprattutto possibilità e opportunità per tutti, anche se sono sempre le élites a essere più reazionarie, proprio come accadeva all'inizio dell'Ottocento...».

Condivido la conclusione, ma un piccolo tassello ulteriore Cotroneo lo poteva aggiungere, ed è l'interessante cortocircuito storico rintracciabile in tutto il discorso: se pure internet porta delle distorsioni (ed è innegabile che fra le tante cose positive, ne abbia portato molte anche di poco esaltanti), gli antidoti non stanno certo in fantomatici metodi coercitivi da regime orwelliano.

Da un uso distorto di internet, a mio modo di vedere, ci può invece proteggere proprio la “lettura lunga”. Di fronte ad un libro di 1000 pagine o oltre, non puoi barare. Fermo restando il fatto di aver accettato di affrontarlo di buon grado, quando inizi la lettura, non puoi fare a meno di prestare attenzione, concentrarti, sforzarti di capire e di immedesimarti, non puoi fare a meno di assorbire concetti e sentimenti trattati, farli tuoi. Pena il dimenticare passaggi fondamentali, smarrendo il filo del discorso e buttando via un sacco di tempo inutile. Il libro lungo ci mette dunque a confronto con un diverso modo di “stare nel tempo”. Con un libro lungo fra le mani, è impossibile rimanere alla superficie dei pensieri. Bisogna per forza andare in profondità, altrimenti tanto vale rimetterlo subito nello scaffale della libreria.

E nell'andare in profondità, ci si accorge che sono necessari tempi estesi, dilatati, tempi molto più consoni al “fisiologico” formarsi della conoscenza e della cultura, di quanto non lo siano i tempi dettati da Wikipedia (con tutto il bene che pur voglio a Wikipedia), e se è per questo, nemmeno da “Andarperpensieri”.

Ogni libro scorre all'unisono col flusso del nostro sangue, ma i libri lunghi lo fanno in maniera ancor più armoniosa, sono imparentati fortemente con la nostra essenza di umani. Mentre il flusso di internet, del quale ormai similmente non possiamo più fare a meno, è flusso elettrico dalla velocità sovrumana, utile quando abbiamo bisogno di prestazioni di livello superiore, ma eccessivo nei casi in cui vogliamo ritrovare una sintonia vera con noi stessi. E quella, un bel tomo ponderoso, ce la garantisce sempre.



venerdì 14 febbraio 2014

Le muse di Kika van per pensieri: Carolus-Duran (1837-1917)


Stavolta Kika mi ha messo veramente nelle peste... :-)
Per il suo appuntamento settimanale con moda ed arte, mi è andata a pescare un autore iper-minoritario, e per di più, fra le sue opere, ha scelto un dipinto nel quale i volti dei protagonisti quasi non si vedono.

Ma niente paura, le sfide della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri” risultano ancora più belle, proprio quando si presentano particolarmente sottili ed evanescenti. E poi, nella scelta dell'opera in questione, c'è un motivo ben preciso: Kika ha voluto omaggiare la festa degli innamorati, San Valentino, con l'atto che agli innamorati più si addice. Ma no, ma cosa andate pensando?!?!?!...ehm, no...stiamo parlando di un qualcosa che viene “prima” di “quella cosa là”...

Insomma, per farla breve, il quadro di oggi ha due protagonisti, ma di fatto il soggetto centrale è come se fosse unico. Si tratta di un bacio. E proprio così s'intitola: «Il Bacio», realizzato nel 1868 da Carolus-Duran. E chi era mai costui, si domanderanno i miei 7 lettori? Vi confesso che prima di oggi avevo sentito parlare al massimo di Roberto Duran, però col piccolo dettaglio che si tratta di un pugile, il leggendario “manos de piedra” diverse campione mondiale dei pesi medi e leggeri.

Invece grazie a Kika, faccio la conoscenza anche di questo artista minore francese. Il suo vero nome era Charles Émile Auguste Durand, ed era nato a Lilla, il 4 luglio del 1837. Carolus-Duran è lo pseudonimo che si scelse. La sua notorietà è roba per addetti ai lavori, ma scorrendo la sua biografia scopriamo che nel corso della sua vita operò in misura veramente proficua per la causa dell'arte. Oltre che per la sua attività pittorica diretta, si distinse infatti anche come direttore dell'Accademia di Francia a Roma, ruolo che rivestì dal 1904 al 1913. Fu inoltre tra i fondatori della Société Nationale des Beaux-Arts e nel 1904 venne eletto membro dell'Académie des Beaux-Arts.

Cosa dire di più, entrando nel merito dell'opera di questo artista? Possiamo senz'altro annoverare Carolus-Duran nella schiera dei “testimoni” dell'arte, ma non in quella dei “precursori”. La sua poetica si rifà a due grandi modelli e, pur realizzando opere di discreto interesse, non si distinse mai per un proprio “discorso” innovativo originale. I suoi punti di riferimento furono il grandissimo spagnolo Diego Velásquez (Siviglia, 1599 – Madrid, 1660) ed il connazionale Gustave Courbet (Ornans, 1819 – La Tour-de-Peilz, Vevey, 1877). Nel dipinto «Il Bacio», evidente è il tributo che Carolus-Duran paga proprio nei confronti del maestro Courbet. Basta confrontare uno dei più celebri dipinti di quest'ultimo, «Les demoiselles des bords de la Seine» (del 1857), con «Il Bacio» in questione, per notare una fortissima “parentela stilistica”.

«Les demoiselles des bords de la Seine»
Gustave Courbet  (1857)

Vale dunque la pena di spendere due parole su Courbet, se vogliamo capire qualcosa anche di Carolus-Duran.

Per dirla in maniera un po' grezza, Courbet può essere considerato l'apripista degli impressionisti. Introducendo un suo nuovo punto di vista “realistico” sul mondo, si prefisse di spazzare via tutte le sovrastrutture romantiche. A tal proposito, chiamo in soccorso come di consueto la mia imprescindibile guida, Giulio Carlo Argan: «...Courbet non idealizza né le figure né il paesaggio... […]...Tutto ciò che si riteneva a priori poetico è ripudiato: il bello, il grazioso, il sentimento della natura. Courbet vuole vedere la realtà com'è, né bella né brutta: per arrivarci, non avendo altra strada, butta via tutti gli schemi, i pregiudizi, le convenzioni, le inclinazioni del gusto. Per toccar con mano la verità elimina la menzogna, l'illusione, la fantasia. Tale è il suo realismo, principio morale prima che estetico: non culto dell'amore, ma pura e semplice constatazione del vero...[...]...Manet e gli impressionisti cercheranno di fissare l'autenticità del reale nell'assoluta purezza della sensazione visiva; apriranno tutta una nuova ricerca fondata sulla percezione. Courbet fa opera di rottura: smantellando tutte le concezioni a priori della realtà, sostenendo la necessità dell'affronto diretto e impregiudicato del reale con tutte le sue contraddizioni, pone le premesse etiche senza le quali la ricerca conoscitiva di Manet e degli impressionisti non sarebbe stata possibile...[...]...La realtà è complessa, qualche volta confusa: bisogna prenderla com'è...».

Sulla scia di questo “manifesto poetico”, va dunque inquadrata anche la ricerca artistica di Carolus-Duran, sempre tenendo conto di tutte le distinzioni e delle proporzioni in gioco, fra le grandezze dei due autori. Per completare le informazioni, possiamo ricordare che l'opera «Il Bacio» è conservata al museo della città natale dell'artista, il “Palais des Beaux-Arts” di Lilla. Carolus-Duran morì a Parigi il 17 febbraio 1917.


E veniamo anche oggi alla parte che mi compete, ossia la ricerca di un volto celebre della modernità, da abbinare a quello della protagonista del dipinto. Dopo essere passati dal blog di Kika, per scoprire le sue sempre brillanti interpretazioni del quadro dal punto di vista dell'abbigliamento dei soggetti ritratti, state a guardare cosa, un po' meno brillantemente, vi propongo stavolta io. La sfida era davvero ostica, e tuttavia, il fatto di aver a che fare con un volto semi-nascosto, forse mi è stato più di aiuto che non d'intralcio. La butto lì, sicuro di essere “Johnny-Stecchinizzato” più che mai...ecco il volto che ho scelto:



L'avrete riconosciuta, si tratta di Joan Crawford (San Antonio, 23 marzo 1905 – New York, 10 maggio 1977), diva hollywoodiana con la “woo” maiuscola, all'epoca d'oro del grande cinema americano.


 Uhm...no, eh? Cosa dite? Mi concedete uno straccio di somiglianza al massimo al massimo per le sopracciglia e niente di più? Come darvi torto...per stavolta sono più che d'accordo con voi, ma almeno posso dire di non aver rinunciato alla sfida. Data la particolarità del dipinto di oggi, diciamo che il volto scelto è quello da me immaginato per la protagonista, una donna volitiva, dalle passioni intense, come sicuramente fu Joan Crawford sullo schermo, e dal poco che ne so, anche nella vita.

E con questo, cari amici, per oggi vi saluto, rimandandovi alla prossima puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, nella quale spero di fare una migliore figura...



domenica 2 febbraio 2014

Quant'è luogo questo comune...



Sto quasi portando a termine una delle mie “imprese di lettore” più soddisfacenti di sempre. Questa volta il tomo scelto è uno dei più “tomeschi” di tutta la storia della letteratura: «I fratelli Karamazov» di Fëdor Dostoevskij. Non sto nemmeno lì ad unirmi al coro di voci che nei decenni avranno detto meraviglie riguardo a questo portentoso libro. In poche, ritrite, ma veritiere parole: un capolavoro assoluto.

La complessità magmatica della vita, afferrata con grazia brutale per la cavezza, nell'improbo tentativo di domarla e di forgiarla in una qualche sagoma proteiforme: solo con questa “pomposeggiante”, e pur sempre elusiva perifrasi, posso forse tentare di definire quest'opera infinita.

E' un libro che per poterne parlare degnamente servirebbero altri dieci libri, altrettanto voluminosi. Mi limito a riportare una deliziosa epifania, rinvenuta intorno alla pagina 840 della mia edizione (Einaudi tascabili, 2004).

Siamo giunti alla Parte quarta, Libro undicesimo, Capitolo IX: “Il diavolo. Incubo di Ivan Fëdorovič”:

«...Ho consultato tutta la scienza medica: sanno diagnosticare ch'è un piacere, ti snocciolano la malattia da capo a fondo, così sulle dita, ma al dunque, guarirti non sanno mica. Mi capitò uno studentello esaltato: “Seppure”, diceva, “morrete, in compenso saprete perfettamente di che male siete morto!” Eppoi quella maniera che hanno di mandarti dagli specialisti: noi, sa, non facciamo che la diagnosi, ma lei vada dal tale specialista, che lo farà subito guarire. Davvero, davvero, te lo dico io, è sparito il dottore d'una volta, che ti curava di qualunque malattia: ora non c'è più che specialisti, e badano a farsi la réclame su pei giornali. Ti s'ammala il naso? Ti spediscono a Parigi: là (t'assicurano) c'è uno specialista di fama europea per curare i nasi. Arrivi a Parigi, quello ti esamina il naso: io, dice, vi posso curare soltanto la narice destra, perché narici sinistre non le assumo in cura, questo non rientra nella mia specialità: ma, terminato qui, recatevi a Vienna, là c'è uno specialista apposta che finirà di curarvi la narice sinistra...».

Non credevo ai miei occhi mentre leggevo queste frasi. Uno dei luoghi più comuni fra tutti i comuni luoghi, era già comune nella seconda metà dell'Ottocento. Pensavo che questa cosa si fossero messi a dirla intorno agli anni '70 del Novecento. E invece erano quelli dell'Ottocento. La fondamentale differenza, rispetto ai tempi dei fratelli Karamazov, è che quello era un luogo comune riservato ad un'élite. Il dottore ai tempi se lo potevano permettere i più abbienti. Ecco dunque forse cosa ci abbiamo guadagnato: la democratizzazione del luogo comune.

E' da quando sono bambino che sento dire questa frase: i dottori “di una volta” erano un'altra cosa. L'ho sentito dire quando il mio primo dottore era in piena attività: al posto suo si rimpiangevano gli antichi predecessori. Andato in pensione lui, giù a rimpiangerlo come ormai ri-classificato fra i neo dottori “di una volta”. E così, via, in una ruota sempre più comune di luoghi comuni. E ad ogni giro di ruota, il tema d'accompagnamento che suonava, e suona tuttora in sottofondo, era ed è sempre il medesimo: non ti fanno più nulla, ti mandano subito dallo specialista. Ed il bello, immagino, sta nel fatto che ogni generazione di pazienti è più che convinta di quanto sostiene: solo al proprio giro di ruota è toccato una categoria di medici generici così generica. “Una volta” no, “una volta” sapevano dove mettere le mani, ti curavano loro direttamente, non se la cavavano semplicemente spedendoti dallo specialista.

Gran sagoma d'un Dostoevskij! Dovevo leggere il tuo sontuoso mattone per arrivare a capire a cosa aspirano i medici quando guardano all'agognata pensione: non vedono l'ora di uscire di scena, per essere una buona volta considerati a loro volta medici “di una volta”, e guadagnarsi così finalmente la stima piena dei loro ex pazienti.