venerdì 10 giugno 2016

"Un pensiero al giorno" 75 - "Oltre il suono di ieri"

"Un pensiero al giorno"

75 - "Oltre il suono di ieri"

I Seattle Supersonics non esistono più da otto anni, ma io l'ho saputo solo ieri. Ah, ferma un attimo... Giustamente, chi non li conosce, vorrà un minimo di delucidazioni su cosa caspita fossero i Seattle Supersonics. Erano una squadra di basket professionistico (NBA, National Basketball Association) con sede a Seattle, per l'appunto.

Perché mi erano in qualche modo cari? Il basket è stato per me una grande passione. Dico "è stato", perché la prospettiva che hai di uno sport quando ci giochi, è tutta un'altra cosa. Vero, le partite le puoi seguire ancora alla tele, per dire, ma quando giochi uno sport in prima persona, tutto è più mitico, eroico, "numinoso", passionale, nel tuo modo di vedere il mondo di quello sport.

E l'olimpo di riferimento, quando giochicchiavo, erano proprio le squadre e i giocatori NBA. Ogni squadra, coi suoi colori, i simboli e tutto l'immaginario che ci andava dietro, era un piccolo mondo su cui sognare. Ogni squadra mi sembrava eterna, in qualche modo. Non poteva non essere esistita da sempre, ed era destinata a esserci indefinitamente. Ciascuna, un'emozione, un aggregato di sensazioni, legate alla città di riferimento, a quello che sapevo o immaginavo riguardo a quel luogo, ai modi di giocare dei vari campioni, al loro stile, all'eleganza degli schemi di gioco.

I Los Angeles Lakers erano velocità pura, autostrade a venti corsie, Magic Johnson, sarabanda multietnica, cento chilometri da una periferia all'altra. I New York Knickerbockers erano la nobiltà del basket, Earl Monroe, il salotto del Madison Square Garden, la tradizione, Manhattan e il fiume Hudson; gli Houston Rockets erano il basket spaziale delle basi missilistiche, Moses Malone, le maglie rosso fuoco della calura texana. E così, ogni squadra un sogno cestistico immaginato.

I Seattle Supersonics (o Sonics per gli amici), mi affascinavano già dal nome, con tutte quelle "esse". Giocavano in maglietta verde e gialla, e i campioni del quintetto base (i cinque spilungoni titolari che scendono in campo) avevano nomi che per me risuonavano con lo stesso epico fremito di quelli dei paladini di Francia. Nomi anche essi generosi di "esse": Jack Sikma (43), Gus Williams (1), Dennis Johnson (24).

Vinsero il campionato NBA nel 1979, e anche se la mia preferenza andava ai Celtics di Boston, i Sonics avevano un posto d'onore nella mia suggestionabilità cestistica.

I Sonics, essendo di un città dell'ovest, li abbinavi a un'idea di libertà, progressismo, gli hippie, i figli dei fiori, l'utopia della pace e dell'amore universale. Magari nella realtà, c'entravano solo relativamente qualcosa con tutto ciò, ma quel che contava all'epoca era solo la mia fantasia di piccolo fanatico di basket.

Eppure nel 2008 sono spariti. O meglio, per questioni economiche son stati mutati in un'altra squadra, gli Oklahoma City Thunder (bah!...), che è forse peggio di una scomparsa netta.

Ma l'America è fatta così. Spreme il presente come un limone, come se l'oggi fosse l'unico tempo a disposizione, e poi calpesta, stropiccia la tradizione, annulla lo spessore del "ieri". Il ricordo dei Sonics rimane, ma questo ricordare è una cosa più all'europea.

Il ricordo dei Sonics in America equivarrà al ricordo lasciato da un vetusto supermarket ormai demolito, per lasciare spazio a nuovissime torri residenziali miste a uffici dagli affitti stratosferici.

È un po' questo, l'aspetto della americanizzazione del mondo che meno mi piace. Questo auto-fagocitarsi temporale, questo cannibalismo continuo praticato a spese della propria saldezza identitaria. Forse, in un certo senso tutto ciò è anche la sua forza, ma assomiglia più a un'energia bruta e senza governo, lanciata a folle velocità verso l'ignoto. Andare, andare, andare...purché si vada. Una cosa che non rassicura molto, a ben vedere.

Insomma, per il mio senso del tempo europeo, italiano, ma soprattutto campagnolo, anche se di fatto non esistono più, i Seattle Supersonics continuano ad esserci. Non giocano le loro partite su veri campi da basket adesso, ma continuano a gareggiare sul parquet della mia nostalgia, un sentimento in molti casi anche pericoloso, ma in alcune occasioni non privo di una propria carica rivoluzionaria: forse unica arma di difesa contro l'avanzata all'apparenza inarrestabile della dittatura del presente.




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