lunedì 31 dicembre 2018

Spettator non visto d'osservati non guardanti


Sopra una panchina affacciata sul nulla, posa spesso le proprie eteree terga l'invisibilità flemmatica d'un nobilitante non agire.

La ricerca di evidenza non è forse la strada maestra da imboccare per allontanarsi dall'insipienza.

Ascoltare, osservare, assaporare, respirare il mondo. Più probabile siano queste, le carte vincenti di un passivante viatico alla non-Vittoria.

Il tempo si lascia scorrere, la realtà s’abbandona al proprio fluire…come può l’uomo, minimale per natura e costituzione, arrogarsi d’aver voce in capitolo nella maestosità di tale portento?

Siamo solamente il frammentario castone d’un’immensa meraviglia, pinzati per le chiappe e applicati al vero attraverso la traballante montatura di una panchina affacciata sul nulla.

domenica 30 dicembre 2018

Salvate il soldato Pizza


Se mi è rimasta ancora qualche certezza al mondo, una è questa: i gatti sono attori nati.

Al seguente delizioso intermezzo felino ho avuto il piacere di assistere in prima persona. Anzi, ne sono stato praticamente uno degli attori non-protagonisti.

Scena: casa di una cara amica; lo “spazio morale-affettivo” domestico è completamente soggiogato alla volontà insindacabile di due bellissime gatte, e di altrettanti cucciolotti, figli di una delle micie.

Sono tutti e quattro bellissimi mici, nel pieno del fulgore “pelliccioso” invernale, ma il mio prediletto è ormai uno dei due “piccoletti si fa per dire”.

Sì perché, hanno ciascuno la propria ragguardevole stazza tondeggiante, ma questo è davvero un portento: un orsetto rossiccio sotto mentite spoglie gattesche, con bellissime striature tigrate panna, per di più impreziosito da un carattere pacioso e bonario, talmente “pantoflone” che, sintetizzando un po' tutti i suoi pregi, mi viene sempre più spontaneo chiamarlo “al Cìcio” (il Ciccio), ogni volta che lo vedo.

La mia amica a un certo punto deve preparare un impasto per la pizza. Al caro “Cìcio” non è normalmente interdetta la scalata alle alture della tavola, salvo nei casi in cui, come questo, ci siano alimenti in ballo. Allora non si sale.

Lui non capisce i motivi profondi, né i “crudeli” criteri di tanto confinamento, e si mette a fare coscienziosamente la ronda sotto al tavolo, per cogliere una minima breccia nella sorveglianza o un punto d’appoggio per azzardare il balzo.

Io mi prodigo a dare una mano nell’opera di contenimento degli assalti del “Cìcio” e mando sotto tutte le sedie che potrebbero fare da piattaforme di lancio.

Intanto l'impasto ha proseguito il suo corso ed è ora di coprirlo con uno straccetto, per riporlo da una parte a lievitare.

Il “Cìcio” nel frattempo, simulandosi offeso dal trattamento di sfiducia subito, se ne sta mezzo indignato, dando le spalle alla tavola, in perfetto stile “nun me ne po' fregà de meno”.

Niente di più normale, niente di più scontato, nella banale prospettiva umana.

Niente di più malinteso invece, nell’ottica felina perennemente carica della più bizzarra energia, prodotta per scardinare ogni logica della realtà.

Infilando infatti l’unica breccia spaziotemporale utile, lasciata sguarnita da un millisecondo di distrazione, ecco allora il “Cìcio”, apparentemente mezzo addormentato solo un soffio d’attimo prima, sfoderare il più fulmineo dei suoi guizzi, che in una frazione di tempo ancor più rapida, lo porta come un sol bombardotto a troneggiare sopra il malloppo della pasta, la fulva zampotta “cotechinata” già pronta a calare giustiziera sulla morbida sfera di futura pizza.

Solo un intervento in corner e la prontezza di riflessi della mia amica, che si era scostata solo di poco, ha potuto frenare l'impeto “Cìcesco” a un millimetro dal compimento dell’impresa, salvando l'incolumità dell’impasto.

Ma ormai quel capolavoro di pantomima felina, fra i nostri sorrisi appagati, si era compiuto. Andando ad aggiungere l’ennesima perla, alla continua bellezza che questi straordinari animali regalano al mondo ogni giorno, con ogni loro mossa.


giovedì 27 dicembre 2018

Rivelazione lineare


Convegni di righe, strade irraggiate lungo percorsi in riunione, sentieri che s’affollano, dove i camminamenti s’imparentano, mentre ponti lanciati su scartamenti a lato, riflettono l’avanzare, intento nel proclama d’un retrocedere tutto preso a far le bizze, e intanto il risalire emette acuti, l’impennarsi si sublima, parallelismi oliati dialogano con ortogonalità in rodaggio, incroci al bacio vanno a braccetto con zigzag a congresso, snodi scivolosi si insinuano negli amplessi fra piani, obliquità ubique traducono volumetrie in boccio, cerchi esplodono, ogive s’intessono, quadri fioriscono, gemmano parallelogrammi e diaframmi tutti
Segni
Tracciati nell’artificio
Astratte presenze del concreto
Per intero estratte
Dal Caos
Rugoso, terragno, calcareo, salace di siliceo zelo, profondo di “milioannuari” sfregamenti ipogei, lapideo, argilloso, sotterraneo, minerario, lavico, estrattivo, ribollente di rimuginare, rifrangente di rocciosi attriti fra l'indeterminabilità degli evi affondati nell’orbitale potenza alla deriva, del deflagrato mistero “Big-Bang-Ante”

Le tre esse mai di moda


Con rispetto parlando, le mode mi sono sempre state sui coglioni.

Forse sarà anche per questo che vado maturando da tempo una sorta di considerazione accondiscendente, verso tre aspetti della vita dai più reputati come disvalori.

Parlo del silenzio, della solitudine, e della sconfitta.

Non importa quanto un tipo possa essere in gamba, intelligente, popolare, abile nell’acquisire potere o danaro, bravo nel farsi ben volere, nel risultare affascinante per gli altri.

Prima o poi la vita lo azzittisce, lo relega a restare in un angolo con l’unica compagnia di se stesso, lo sconfigge.

In questo senso, non va frainteso quanto voglio dire. Silenzio, solitudine e sconfitta, non bisogna di certo andarseli a cercare col lanternino, sfoggiando la più sfavillante masochistica frenesia.

Il punto è un altro.

Il punto è che, alla fin fine, non si potrà nemmeno sforzarsi di scansarli.

Che ci facciamo o che “non” ci facciamo qualcosa noi, prima o poi arrivano. Magari in una forma del tutto inattesa, dalle direzioni più impensate, nelle circostanze che mai avremmo immaginato.

Ma arrivano.

Ecco allora che diventa inutile arrovellarsi per stabilire se silenzio, solitudine e sconfitta, siano valori o disvalori. Sono elementi della realtà con cui tutti prima o poi ci dobbiamo confrontare.

Oltre a questa caratteristica, silenzio, solitudine e sconfitta hanno altri tratti comuni.

Possono assumere un aspetto interessante nei casi in cui ci concedano un minimo di libertà di poterli scegliere, quando ci lasciano un po' di voce in capitolo.

Stare in silenzio, ritrovarsi soli, perdere, certe volte: sono tutte situazioni che possono rivelarsi feconde di possibilità, se solo siamo capaci di rivalutarle in una differente prospettiva, insolita, rispetto al comune modo di vedere.

Silenzio, solitudine, sconfitta: li ho elencati secondo il grado crescente di difficoltà.

Il silenzio è forse il più “digeribile” di tutti. Se ci è concesso di sceglierlo, è una possibile fonte di rigenerazione interiore notevole.

Saper coltivare i momenti di silenzio aiuta a rendere davvero preziose poi le occasioni di dialogo e confronto. Aiuta a selezionare meglio quanto si andrà a dire, riduce l’inflazione delle parole, le carica di uno spessore più significativo.

Subito di seguito, saper gestire bene il silenzio è un preludio buono per riuscire ad attraversare la solitudine, non solo coi minori danni possibili, ma forse anche guadagnandoci qualcosa.

Sembra strano ed estremo a dirsi, ma a ben guardare ogni mattoncino del vivere regge a partire dalle fondamenta della solitudine. Tutto parte da lì.

I più grandi problemi, le sfide più dure, le difficoltà più ardue…certo, senza l’aiuto degli altri non potremmo nemmeno iniziare a pensare di affrontarle.

Ma se di fondo non c'è un retroterra interiore consolidato grazie alle sole nostre risorse personali (in altre parole: costruite “da soli”), non starà un piedi bel nulla.

Più complicato di tutti è il capitolo della sconfitta. Come si fa a dire che nella sconfitta ci può essere qualcosa di buono? Per di più, la sconfitta, nessuno la sceglierebbe mai…forse giusto un pazzo…

Ma anche qui vanno fatte distinzioni fra sfumature molto sottili.

A volte chi accetta la sconfitta dimostra molto più coraggio e valore del vincente stesso.

Chi riconosce di aver perso fa un esercizio di realismo molto significativo e intenso.

Concede alla realtà di proseguire e “rimarginarsi”, senza causare strappi ancor più gravi della propria personale perdita del momento.

Ma ancora più importante è che le forme della sconfitta vengano riviste e rivisitate da parte dei vincitori.

Chi vince, e dunque causa sconfitta, dovrebbe sempre riconoscere il ruolo fondamentale dello sconfitto, in questo grande, complesso gioco dialettico che è la realtà.

Il vincitore che invece umilia il perdente, non fa altro che mettere le basi per una sua sconfitta futura.

Chi perde, insomma, non è che scelga mai di farlo. Ma va in ogni caso riconosciuto come nobile parte in causa della vasta dinamica della vita.

Ognuno desidera dire agli altri (non stare in silenzio), sentirne il contatto (non stare solo), e parte sempre per vincere nelle sfide (non essere sconfitto).

Ma se si ritrova poi solo, nel silenzio, e sconfitto, deve poter contare sulla consapevolezza di aver raggiunto ad ogni modo un traguardo carico di una speciale dignità.

Ecco. Oggi volevo dire qualcosa su questi aspetti della vita che mi stanno a cuore proprio per la loro apparente contraddittorietà problematica: silenzio, solitudine, sconfitta.

E se non sono stato abbastanza chiaro o lineare, concedetemi almeno le attenuanti generiche per eccesso obnubilante da ingestione reiterata e continuata di anolini.

sabato 22 dicembre 2018

Sfera e gatta


C'è un istante sotto sera
Svelto come il riso d’un gatto
Che ogni cosa sembra più vera
Ed esser vivi è un lavoro da matto

La giornata va in sposa al buio
Tramestio lieve su bacio d’ambra
Il cielo con l'animo fa il paio
Di colpo, un Uno, tutto sembra

Nevicano piano nel pensiero
Tutti quelli che sono stati
Indicandoci un sentiero
Fatto d’azioni, amori e fiati

Poi l’incanto si rifrange
Ci si riprende su un filo di sogno
E una striscia di chiazze e arance
Rimane nel cuore se c'è bisogno





Smart Petrarca


Quando si va in qualche luogo dove tocca fare sala d'attesa (a una visita, in un ufficio, dal dentista, ecc.), si presenta anche la questione di come ammazzare il tempo.

Per uno che, tanto per dire, d’estate si fa scrupoli persino a schiacciare una zanzara, si tratta in quei casi di impegnarsi piuttosto nella rianimazione del tempo, che non nella sua soppressione.

Una volta, prima dell'avvento dei cellulari “smarfoni”, ci si trovava generalmente abbastanza sguarniti.

Le alternative erano poche.

Una era mettersi a sparare quattro fregnacce di circostanza con dei perfetti sconosciuti, occasionali compagni di sventura cronologica.

Ma in quel modo, le insidie erano pronte a sbucare dietro ogni angolo.

Ecco allora che ti ritrovavi di colpo a naufragare nel periglioso oceano delle banalità e delle frasi fatte.

Annaspavi in capziose discussioni sul tempo, nel corso delle quali avevi la “fortuna” di venir iniziato ai profondi misteri dell'ovvietà climatica: “...eh…se c'è nuvolo, magari piove…ma se fa sereno poi viene la nebbia…”…

Oggi però che tutti giriamo sempre “smarfonati”, allineati e connessi, si possono vedere le sale d'aspetto di tutta Italia piene di persone piegate a capo chino sul proprio apparecchietto, rapite nel profondo dall’atto di “scadnassare” (“scatenacciare” = trafficare), “sditacciare” e “touch-screenare” sul mini schermo.

Esiste tuttavia un’opzione sempreverde, già valida in epoca “pre-smarfonale”, e che rimane praticabile anche in quest’era di iper-connessione diffusa: portarsi appresso un buon libro e immergersi nella lettura.

Si potrà obiettare che lasciar smarrire la mente dietro le lusinghe di uno “smarfone”, o dietro quelle delle pagine scritte di carta, non fa una gran differenza.

Invece io credo che sia ben diverso.

Il luminoso e ammagliante rettangolino del cellulare (dal quale confesso di venir assorbito molto spesso anche io) offre un tipo di passatempo ricchissimo, con foto, filmini, canzoni, scritti, consultazione di giornali, insomma una gamma informativa “bombardardeggiante” virtualmente infinita.

Questo non è affatto male di per sé, ci mancherebbe. Anzi.

Però, paradossalmente, tende a trasformarci più in soggetti passivi dell’interazione: il telefono, con la sua offerta infinita di stimoli, guida le danze e noi gli andiamo dietro.

Il libro invece, che pur all’apparenza si presenta come uno strumento di informazione più povero e limitato, proprio per questo motivo tende a suscitare maggiormente il nostro contributo attivo di fantasia, immaginazione, “creazione di mondi interiori” al seguito del filo della semplice parola narrante.

Si potrebbe ancora eccepire che il libro è troppo ingombrante, rispetto alla snella “tascabilità” di uno smarfone.

Pure questo è vero, ma volendo ci si può dotare di mini libricini molto comodi, grossi praticamente come un cellulare, purtroppo poco diffusi come formato, ma che sarebbe auspicabile gli editori prendessero a realizzare di più.

Personalmente ne posseggo uno che mi porto spesso con me, ed è una bella micro-edizione del “Canzoniere” di Francesco Petrarca (1304-1374), grande giusto come un cellulare, solo un po' più spessa.

Fra l'altro, il testo in questione è adattissimo a smarrirsi con la mente in un’attiva battaglia con l’immaginazione.

Perché la sfida aggiuntiva di arrovellarsi con un testo scritto in un’antica e ricercata forma di italiano aulico, arricchisce ancor più lo sforzo di interpretare, capire, suggestionarsi linguisticamente.

Così molto spesso, il mio tempo altrimenti gettato alle ortiche nelle sale d’aspetto, lo riciclo ottimamente differenziandolo lungo la meravigliosa scia di pensieri suscitati dalla poetica magia petrarchesca.

E sempre più di frequente mi succede di domandarmi come mai tanta gente insiste nel drogarsi, quando al mondo, da ormai oltre sei secoli, esiste una fonte di bellezza tale, da riuscire a farti incappare nella lettura di una meraviglia del seguente tipo:

Benedetto sia'l giorno e'l mese et l'anno
et la stagione e'l tempo et l'ora e'l punto
e'l bel paese e'l loco ov'io fui giunto
da' duo begli occhi che legato m'ànno;

Et benedetto il primo dolce affanno
ch'i’ ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l'arco et le saette ond'i’ fui punto,
et le piaghe che'nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch'io
chiamando il nome de mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e'l desio;

et benedette sian tutte le carte
ov'io fama l'acquisto, e'l pensier mio,
ch'è sol di lei, si ch'altra non v'à parte.

venerdì 21 dicembre 2018

Sei della Bassa se...


Sei della Bassa se non vedi il sole per nove settimane e mezzo, ma poi tra l’una e le due del pomeriggio di un giorno da cani, lui fa capolino per tre secondi netti tra la coltre di nubi nebbiose, elemosinandoti due raggi di compassione, gelidi come la tetta di una strega, che quasi ti sembra sentirlo sussurrare: “...Tieni, pezzente!…”…

E “commosso” da tanta benevolenza, ti sale dal profondo del cuore un moto di gratitudine interamente dedicato al dispettoso astro, che si concretizza in uno sconsolato bofonchiare dalle inequivocabili sonorità: “…Dìu ch’at végna’n càncar!...” (liberamente traducibile con: “…Che il Signore t'infligga la mala Pasqua…”).

Così, mentre torni a rassegnarti come sempre alle tue foschie esistenziali, nell’aria lattiginosa rimane ancora il tempo per cogliere uno strascico di risposta solare alla tua invettiva: “…Fai, fai pure il furbo…poi ci mettiamo a posto a ferragosto…che ti faccio sudare fin le unghie dei piedi…”…

lunedì 17 dicembre 2018

Tautofotia


Sognare è uno sport completo.

E non parlo di sogni in senso figurato, come ad esempio si usa dire per riferirsi a un desiderio, oppure a un’aspirazione futura.

No, no. Parlo precisamente dei sogni veri e propri, quelli sognati dormendo.

In certi sogni ci si sente come un apparecchio fotografico a sua volta fotografato.

Se è il soggetto a scattare la foto, come fa ad essere nel contempo oggetto della scena? Chi viene ripreso e chi schiaccia il pulsante?

Chi è che guarda? E chi è il guardato?

Alla fine della catena, c'è un occhio supremo che osserva tutti gli altri dall’alto? Oppure non termina mai il susseguirsi di “guardanti riguardati” di riflesso?

Sono io che vedo me stesso attraverso lo sguardo degli altri, oppure guardo gli altri pensando a come mi vedono?

Quando si tratta di sogni, questo tipo di interrogativi avviluppati su se stessi, spuntano come funghi.

E non si pensi che siano solamente questioni oziose da perdigiorno.

D’accordo, un po' lo sono anche.

Ma non scordiamo che di sogni si sono occupati da sempre i più grandi poeti, letterati e pensatori.

La stessa modernità, per certi suoi importanti capitoli, si fonda sui pilastri del sogno, infissi nel terreno della conoscenza, lungo l’arco del pensare che va da Sigmund Freud, passando per Andre Breton e Salvador Dalì, fino ad approdare a Gigi Marzullo.

La questione del “guardare riguardato”, innescato dal sogno, può suggerire una piccola, ma suggestiva riflessione.

Nei sogni avviene una specie di deflagrazione dei punti di vista.

Mentre durante le ore “da svegli”, vivendo la quotidiana “vita vigile”, siamo per forza di cose ancorati al nostro punto di vista personale, quando ci immergiamo in un sogno, questa saldezza di riferimento esplode in mille occhi disseminati attorno alla multiforme realtà onirica.

Ne dobbiamo concludere che rimanere dentro a un unico punto di vista, sempre fissato e monolitico, ci sta stretto?

Forse.

E forse ne possiamo ricavare anche un insegnamento.

Se è vero (come sembra sia vero) che l’ambiente del sogno è come una sorta di officina, in cui ogni notte portiamo il “nostro essere” a riparare, allora il meccanico titolare dell’officina ci suggerisce anche un'importante avvertenza da usare per una buona manutenzione della nostra “automobile esistenziale”.

Cambiare spesso i punti di vista da cui, e i modi con cui, si osservano le cose, può essere una buona cosa che giova al motore del vivere.

Avere opinioni abbastanza certe, pensieri saldi, convinzioni su cui fare affidamento, rimane il modello guida.

Ma sclerotizzarsi sulle posizioni, incaponirsi sulle idee, aggrapparsi ai giudizi come cozze allo scoglio, va molto meno bene.

E non ve lo di dico mica io.

Me lo hanno spiegato alla concessionaria dei sogni.

domenica 16 dicembre 2018

In alto i calici mezzi pieni, disse la moglie alticcia alla botte ubriaca, e intanto i topi ballano, ma il gatto suona le maracas


Quando penso
A tutti i tempi
Del mio personale tempo
Sorprendo me stesso
Incapiente di un recepire
Tutto teso ad un vuotare
Ma fatto sì che a ben
Guardare
Si traveste da riempire
Contento vuol dir quasi felice
Ma anche contenuto
Che si contiene al contempo
Nel trascorrere del tempo
Sono sempre più di me
E un poco meno di io
Si sommano gli anni
Ciò ch’eravamo
Sopravanza quel che saremo
Eppure tradisco l’algebra
Con due lievi cenni di palpebra
E nel meno che pur si muta
Fiorisce il più che non si dica



venerdì 14 dicembre 2018

Massa critica


Il “nostro mondo” interiore è un paesaggio.

Le idee, i pensieri, le sensazioni, la conoscenza, le emozioni, i sentimenti, il sapere, la cultura: sono questi i suoi elementi geografici significativi.

Fra questi elementi, ci metterei volentieri tutto quanto possiamo trovare nei libri.

Di riflesso, i libri, li immagino dunque formare una sorta di distribuzione delle altitudini del paesaggio: gli argomenti dei libri sono le valli, le colline, gli appennini, le alpi, le vette, che la nostra curiosità può visitare ed esplorare.

Alcuni libri formano l'Himalaya del sapere. La loro scalata ci si presenta tanto ardua e avventurosa da spaventare, e al tempo stesso ci affascina in modo estremo.

Un libro, che è una vera “cima ottomila” del sapere, mi sfida da qualche tempo dalle quote più impervie del mio comodino. Si intitola “Massa e potere” e l’ha pubblicato nel 1960 Elias Canetti (Nobel letteratura 1981), dopo averlo elaborato per almeno tre decenni.

Come chiaramente si evince già dal titolo, si tratta di una lunga (571 pagine!!!) e molto articolata trattazione riguardo a un unico argomento: la “massa”.

Canetti racconta con un registro espressivo che si pone a metà strada fra la narrativa e il saggio sociologico. Questo fatto, se da una parte dà alla trattazione più profondità, aggiunge difficoltà alla “scalata”.

Si dice che viviamo in una società “di massa”. Questo è vero, nel senso che siamo esposti a venire coinvolti in fenomeni di massa, molto più di quanto non lo fossero i nostri nonni o antenati lontani.

Ma il concetto di massa è molto antico, non fosse altro perché risiede nella realtà stessa. È addirittura parte integrante dell’organizzarsi di vari meccanismi naturali, come ad esempio gli sciami, i grandi stormi, le vaste reti vegetali, tipo boschi o foreste.

Nella massa, l'individuo si annulla, con tante sue prerogative. Il singolo viene assorbito, e da questo inglobamento possono derivare vantaggi oppure perdite di valore.

Della massa si è occupata la grande letteratura. La massa può presentarsi sotto sembianze fisiche, oppure come un “aggregato informativo”, ossia come somma di tante opinioni o idee, fuse insieme.

La massa può allora arrivare a formare quasi una unica grande mente pensante, non più controllata dalle singole menti da cui ha tratto origine.

Un esempio molto luminoso  (anche se non citato da Canetti) si trova nel capolavoro di Virgilio, “Eneide”.

È sorprendente pensare come in questo testo di circa duemila anni fa, fossero già previste situazioni che con l’avvento di internet sono divenute di una attualità stringente.

Nel quarto libro della sua opera, Virgilio introduce una figura mitologica denominata “Fama”.

Sotto le sembianze di un perfido uccellaccio che vola sopra le città gonfiandosi di “sentito dire” e di notizie trasmesse di bocca in bocca in modo disordinato, la Fama sta a impersonare l’idea della “diceria di massa”.

Virgilio la descrive così: “…E subito va la Fama per le città grandi [d’Africa], la Fama, di cui nessun'altra peste è più rapida. Nel movimento è il suo crescere, andando acquista le forze: piccola prima, e timida: ma già s’alza per l’aria, e cammina sul suolo, e il capo ha già tra le nuvole…[…]…celeri i piedi e l’ali ha mobilissime, prodigio orrido, immenso, che quante piume ha sul corpo, tanti vigili occhi ha di sotto (cosa a dirla mirabile), tante lingue: tante bocche ripetono, tanti orecchi si drizzano…[…]…tenace a narrar menzogne maligne, così come il vero…”.

Non avete anche voi l’impressione, scorrendo queste righe virgiliane, di sentir parlare di alcuni degli aspetti “meno esaltanti” di internet?

Ma il tema della “massa” è talmente vasto che dilungarsi oltre, qui, non sarebbe possibile.

Così mi accingo a indossare gli scarponi del desiderio di sapere, sfodero la piccozza dell'attenzione, mi premunisco coi moschettoni del piacere della lettura, e parto per la scalata dell’Everest di “Massa e potere”.

Se cammin facendo mi capiterà di ammirare qualche scenario particolarmente fascinoso, magari vi terrò informati con un nuovo reportage di viaggio.

giovedì 13 dicembre 2018

Le foto che noi siamo


Roland Barthes (1915-1980) era uno studioso del linguaggio e critico letterario francese. Per una vita si è occupato di “segni”.

In senso molto esteso (estesissimo), un “segno” è qualsiasi elemento utilizzato per comunicare: una lettera, una sillaba, una parola, una nota musicale, una canzone, una frase, una pennellata di colore, un quadro, un segnale stradale, un gesto, un’immagine, una foto, e così via.

I segni sono i mattoncini dei vari linguaggi; i più diversi linguaggi.

Riguardo al “linguaggio delle immagini”, Barthes ha scritto uno dei suoi libri più famosi, “La camera chiara” (1979), dove si è interrogato sull’essenza della fotografia.

In parole povere (anche se naturalmente il contenuto del libro è molto più articolato), ha cercato di capire quando e per quale motivo una foto ci piace, ci colpisce, ci appassiona, ci coinvolge.

Secondo Barthes, per “sentire” completamente una foto, per provare una qualche forma di emozione complessa, osservandola, devono verificarsi due condizioni, che lui definisce con termini latini.

La prima condizione la chiama “studium”, e non vuol dire solamente “studio”, in semplice e diretta traduzione letterale. “Studium” significa, in senso più completo, applicare il proprio interesse a un argomento.

Quando una foto suscita il nostro “studium”, vuol dire che emerge dal mare dell'indifferenza, ci presenta una scena di cui la nostra cultura vuole sapere qualcosa.

Fino a qui però, rimane un tipo di gradimento a livello culturale appunto. Applicando “studium” a una fotografia, il nostro sguardo “entra” in quella immagine, ma ci passeggia dentro guardandosi un po' intorno come un turista, per vedere cosa racconta l’ambiente generale.

A rendere completa la vera attrazione suscitata da una foto, deve intervenire la seconda condizione, che Barthes definisce “punctum”. Anche qui, il termine non vuol dire soltanto “punto”, ma sta a indicare proprio l’idea di una puntura, una sorta di “pizzicotto visivo” che l'immagine fotografica ci dà.

Una foto “ci punge” quando un certo elemento della scena è in grado di scatenare una nostra reazione intima, non meglio spiegabile in termini razionali.

Allora non sono più un semplice “turista” dentro il paesaggio di quella foto, ma ne divento quasi un abitante.

Mi domandavo se qualcosa di simile non succeda anche fra le persone. Certo, una persona non è una foto, si tratta solo di un paragone ideale e molto semplificato. Ma qualche nesso potrebbe esserci.
Perlopiù, la maggior parte degli “altri” ci scorrono davanti come immagini di superficie, che tutto sommato ci lasciano indifferenti.

Solo su alcuni ci disponiamo con un atteggiamento di “studium”: ci sono buoni motivi di interesse comune, si condividono cose, ci si muove su un paesaggio di vita familiare.

Ma solamente chi ci punge con la sua “puntura di umanità”, si imprime come una foto importante nel nostro sguardo amicale, affettivo e, nei casi più felici, amoroso.

martedì 11 dicembre 2018

Quell'ominide nel sottoscala


A volte, riguardo a una certa questione, basta spostarsi pochi centimetri di lato, per osservare la cosa da una prospettiva totalmente diversa.

Avrete sentito parlare delle pitture rupestri, quei graffiti antichissimi scoperti dentro grotte preistoriche, un po' in varie parti del mondo.

Raffigurano perlopiù scene di caccia, animali colti in pose dinamiche e molto rappresentative dei concitati momenti di un inseguimento, di un appostamento o di situazioni simili.

Gli antropologi, gli studiosi del tema, gli esperti insomma, concordano ormai abbastanza su un fatto.
Per l’uomo primitivo, in virtù di qualche magica continuità, nell’animale raffigurato era presente lo spirito stesso dell’animale vero, quello vivo in carne e ossa, scalpitante là fuori nella prateria.

Nella mente dell’uomo preistorico, animale vivo e animale disegnato erano praticamente intercambiabili.

Come questo fosse possibile, non lo si può spiegare fino in fondo, ma era così. Allo stesso modo di tanti meccanismi mentali dei bambini, anche loro spesso propensi a fondere e confondere oggetti reali e “oggetti emotivi”.

Questa cosa che nei propri disegni, il nostro remoto antenato ci vedesse un mix di reale e concepito, a una prima considerazione volante ci fa tendenzialmente sorridere.

Noi uomini “moderni”, con alle spalle la grande lezione scientifica di Galileo, sappiamo che, in ambito comunicativo, un “segno” è solamente uno veicolo neutro per trasportare un “significato”.

Una foto, una frase scritta, un disegno, una registrazione audio o video, sono solamente macchie di inchiostro o colore sulla carta, o pixel su uno schermo. Tra forma e contenuto, “pretendiamo” di sapere che esiste una notevole differenza e un distacco netto.

La pensavo grosso modo così anche io, fino a quando non ho letto una cosa sulla bella “Storia dell’arte” di Ernst Gombrich, scritta nel 1950.

La riflessione è proposta sotto forma di invito-provocazione a fare un piccolo esperimento (anche solo mentalmente, basta per capirne il senso).

Immaginate di sfogliare una rivista e di soffermarvi sulla foto in primo piano di qualche personaggio più o meno famoso. Immaginate di prendere uno spillo e di forare proprio nella pupilla il suo volto.
Si tratti di un personaggio amato o di uno detestato, non si può negare che la cosa ci causerebbe un certo “coinvolgimento emotivo”.

Credo sarebbe molto difficoltoso farlo davvero, e qualora ci riuscissimo, nell’attimo in cui la punta dello spillo trapassasse effettivamente “l’occhio cartaceo”, un brivido di disagio correrebbe di sicuro dall'ago ai polpastrelli, alla mano.

Forare la carta in un altro punto della pagina, magari una parte in bianco, o sullo sfondo appena a lato della testa del medesimo personaggio, non sarebbe per niente la stessa cosa.

Ecco dunque che le diverse zone inchiostrate non hanno tutte lo stesso valore, non contengono tutte la stessa “energia significante”.

Alcune sono più intense di altre, più “dense di vero”, più cariche di una strana forma di contatto privilegiato con la realtà.

Possiamo ancora dire allora che il vecchio caro uomo primitivo fosse così sprovveduto e ingenuo? Forse possiamo dirlo un po' meno.

Raschiando millenni di civilizzazione, l’uomo primitivo è ancora lì a fare capolino, nel retrobottega del nostro essere.

Tutto questo ci fa pensare e ci mette in guardia allo stesso tempo.

Ogni volta che crediamo di comunicare un qualche contenuto “obiettivo”, dovremmo mettere in conto che forse ci stiamo solo illudendo.

In noi operano sempre continui, sotterranei “motori inconsci”, in contatto diretto con la nostra sfera emotiva e irrazionale più profonda.

Anche scrivere una semplice frase su internet, credendo di dire una cosa chiara, non è mai un atto banale e scontato.

I nostri retroscena emotivi lavorano sempre in sottofondo, e se ne siamo almeno un po' consapevoli, forse è già una buona cosa.



domenica 9 dicembre 2018

Piàta t'al vè a dì a tu nòna


La Bassa è una terra piatta, si sa, e dal punto di vista geografico il discorso non fa una grinza.
È da una prospettiva “spirituale” che la definizione inizia ad andare un po' stretta.

Se si pretende infatti di far passare come buona l'equazione “terra piatta” uguale “gente piatta”, ecco che la matematica dell’animo si ribella vivamente e denuncia tutta la stonatura del traballante sillogismo.

Si usa dire abbastanza spesso che da queste parti non c'è niente. Anche questa frase contiene solo una mezza verità.

Perché proprio con la sua altra imprecisa metà, questa frase ci svela come in realtà, quello che c'è non sia poi così tanto poco.

Soltanto che, per poter cogliere la ricchezza effettiva di “quel poco”, servono speciali lenti della sensibilità, e non sto parlando di superpoteri da supereroi.

Se uno vive nella Bassa per un po' e ne assorbe il paesaggio esistenziale, quelle lenti se le sente crescere naturali addosso, appoggiate leggere sul naso che quasi nemmeno sa di averle.

Il segreto sta in un classico meccanismo psicologico. Chi ha poco, deve ingegnarsi a far fruttare al meglio le combinazioni degli scarsi elementi a disposizione.

Il grande progettista non è chi sa architettare la stratosferica villa lussuosa con un budget di dieci milioni di euro.

Il vero, grande progettista lo si vede quando, con quattro lire a disposizione, riesce a instillare in un modesto edificio, un profondo e genuino “sentimento di casa”.

La Bassa ti mette alla prova ogni giorno, a saper trovare significati degni di nota, combinando sempre in modo inedito e rinnovato quelle quattro lire di realtà.

Fare una passeggiata sull'argine è proprio il minimo di budget a disposizione per riempire il tempo di senso.

Eppure ogni volta “fatico” a tornare a casa senza aver scattato almeno un paio di foto discrete. Certo, non dico mica dei capolavori. Eppure, sempre piccole scene che raccontano come certe micro bellezze minimali siano spesso in agguato lungo la “piattezza” in cui mi inoltro.

Poco prima di partire, o perlomeno sui passi iniziali del percorso, mi ripeto sempre: “…Oggi niente foto…che immagine vuoi ci sia ancora da spremere, in questi quattro campi spelacchiati?...”.

Ma quasi regolarmente vengo smentito.

Basta gettare un’occhiata distratta a un angolino di paesaggio visto e rivisto in mille occasioni, ma questa volta osservato in un suo dettaglio diverso, che un nuovo racconto sotto forma di foto può nascere all'improvviso…

Spostato appena fuori dall’asfalto della pista ciclabile, sul ciglio erboso, mi colpisce una curiosa combinazione geometrica fra i campi appena là sotto.

Il diverso momento di progressione nei rispettivi stati di coltivazione di due terreni, un fosso divisorio, la carraia che cuce insieme il tutto, la spalla dell’argine a fare da sottofondo obliquo “scompiglia-piani”…tutto questo parla della femminilità della terra.

Introduce nell’idea di triangolazioni fertili allo stesso tempo così concrete, ma anche evocatrici di un astratta combinazione dal vago sapore astrattista moderno.

Tutto sembra condurre l’occhio a condensare lo sguardo all'interno dell’incrocio centrale di erba-terra-luce. Ma le linee di fuga sono molteplici, la prospettiva è frantumata, e insieme tutto porta anche a fuggire visivamente fuori dai confini dell’immagine.

Un po' come in fondo fa la Bassa medesima.

Che è piatta, sì, ma ti risucchia in sé con una marea di significati, nati da un riflesso continuo di scambio, fra il proprio meditare visivo e lo sguardo meditativo stimolato da ogni cosa intorno.

sabato 8 dicembre 2018

An English man ind'la Bàsa"


That was me
At the feet of a tree
Half a human,
Or a root, maybe
Part of the river
You could nearly me see…
Of the wind on the back
Feeling whole
the strong beat
8th of December butterfly
I suddenly sail in the sky

[“Un inglèś in the lower lands”

Ecco me
Ai piedi di un albero
Mezzo umano
O una radice, forse
Parte del fiume
Mi potevi quasi vedere…
Del vento nella schiena
Sentendo l’intero
Gagliardo battito
Farfalla dell’8 dicembre
Veleggio d'improvviso nel cielo]

Far quadrare i quadri


Nella vita, il senso della composizione è tutto. O quasi tutto.

Compositore, comporre, composizione. Sono parole che si associano il 97% delle volte alla musica e a chi la sa creare.

Bisognerebbe ribaltare la prospettiva, e rendersi conto di come in realtà il senso del comporre pertiene ai musicisti solamente per un 3%, mentre per tutto il resto della fetta vitale è di competenza di tutti.

Comporre, attraverso le varie circostanze del vivere, vuol dire cercare nelle cose un equilibrio in grado di rispecchiare le più profonde esigenze dei sensi e dell’animo, che sentiamo connaturate in noi.
Comporre significa dunque cercare all’esterno quella bellezza che sentiamo appartenerci già da sempre, nel nostro intimo.

Tale bellezza si dispiega lungo una sottile ricerca di pesi e contrappesi fra forze visive, sonore, tattili, olfattive, saporose, emotive, concettuali e spirituali.
Quando scriviamo, leggiamo o parliamo parole, quando ci muoviamo, scattiamo una foto, facciamo un disegno, quando lavoriamo, cuciniamo un piatto o carezziamo il gatto, quando pensiamo o amiamo qualcuno, quando mettiamo insieme fra loro qualsiasi tipo di idee o gesti quotidiani, dal più banale al più elaborato, stiamo creando una composizione.

Nessuno è caduto dal cielo provenendo da Marte, ognuno ha conosciuto i rudimenti primordiali della vita da dentro il ventre di una donna, e in questo senso siamo tutti fratelli e sorelle accomunati da un’idea universale del comporre il tempo con lo spazio.

La cadenza del respiro, il battere del cuore, l’eco ovattata della voce risuonante da qualche parte “là in alto”, in quei nove mesi incorporati in una mamma, ci hanno indicato le “coordinate compositive” fondamentali che avremmo seguito nella vita “là fuori”.

Il ritmo, la simmetria, il senso armonico, il richiamarsi fra loro dei vari componenti di una scena, la coerenza generale fra le parti e di ogni parte con il tutto.

Sono tutti criteri compositivi poi perfezionati crescendo e imparando dal confronto fra il nostro panorama interiore e quello della natura, dell'ambiente, delle cose e degli altri.

E non si tratta di una oziosa dissertazione ispirata da un atteggiamento indulgente verso qualche forma di vuoto “estetismo”.

Padroneggiare la “sapienza della composizione” è fondamentale non solo per potersi esprimersi nell’ambito del Bello, ma anche e soprattutto in quelli del Buono e del Vero.

Bellezza, Bene e Verità sono valori apparentati fra loro dal legame di senso del “saper comporre”.

Mettendo in sequenza, oppure disponendo assieme in una scena valida nel medesimo attimo, quella giusta articolazione di spinte e controspinte estetiche in grado di soddisfare il nostro desiderio di completezza, penetriamo di volta in volta significati della vita che, pur continuando a sfuggirci nella loro essenza profonda, sentiamo essere fondamentalmente e irrinunciabilmente “nostri”.

domenica 2 dicembre 2018

I libri più belli


Omaggio “indiretto, periferico, sotterraneo, parallelo e tangenziale” ad “Auto da fè” (1935) di Elias Canetti (1905-1994), premio Nobel per la letteratura 1981.

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I libri più belli sono quelli che ti lasciano dentro incredibili architetture dell’animo, edificate con murature miste, rette dai mattoni di una fisicità raccontata, e tenute insieme dalla malta spirituale di verosimili fantasie, estratte direttamente dai giacimenti quotidiani dell’esistenza.

Anche se poi, appena richiusa la copertina sull’ultima pagina letta, non ti ricordi già più che Tizio si struggeva d'amore per la Tale ma lei non ne voleva sapere, e saltava fuori che aveva già una relazione segreta col babbo di lui, ma forse era suo nonno, e in ogni caso il nonno era anche appassionato da tempo di gatti e canarini...anche se della trama t'è rimasta in mente soltanto una rete sfilacciata e incerta, i libri più belli sono quelli che, nel bel mezzo di qualcosa che stavi facendo, mangiare un salatino, grattarti il mignolino, te li ritrovi cuciti addosso all’improvviso, come abiti inconsci quasi fatti su misura, paesaggi emotivi in cui cammini col pensiero senza quasi rendertene conto.

I libri più belli ti dicono cose di te che non sapevi, o meglio, in molti casi non sapevi di sapere.

E se le sapevi, non eri mai riuscito a metterle a fuoco.

E se qualche volta ce l’avevi fatta a tradurle in parole, a recintarle in uno steccato sbilenco di frasi, si trattava pur sempre di incerti balbettii ai quali sfuggiva alla fine la vera essenza della cosa da dire.

Mentre nei libri più belli, il mistero che rechi dentro, pur continuando ad orbitare attorno alla propria fuggevolezza di fondo, viene detto nell’abbagliante fulgore di una verità sconfinata e, rigorosamente, mai definitiva.

Nei libri più belli, può esserci più Mondo che in tutto il resto della Terra presa per intero. Ma solo se sei capace. Di vederlo, di evocarlo, di interpretarlo, di metterti in vibrazione con esso.

I libri più belli, anche anni dopo averli letti, ti piovono d’un tratto dentro, sotto forma di sagome della realtà, climi di vita, bussole di riferimento per spazi non misurabili, mappe del muoversi nel tempo, punti cardinali dell’attimo.

I libri più belli sono un concentrato di essere, un distillato di senso, nettare offerto al lavorio volonteroso dei neuroni, che dall’alveare dell’intelletto si preoccuperanno di far colare il miele della conoscenza.

I libri più belli non riuscirai mai a dire fino a dove sono belli. Perché l’unico modo per “saperli” è abitarli, entrarci dentro in prima persona. E mentre sei immerso in un luogo, puoi solo dire come ti senti a stare lì, ma non raccontare come sarebbe a vedere te stesso dal di fuori.

mercoledì 28 novembre 2018

martedì 27 novembre 2018

Errare suinum ovest


Cirri su Rocca
Roridi di rosa
In riverberi rari
D’un pre-dicembrino
miraggio
Stratificato a gradi
Con brilli e con trilli
Su lembi di nembi
Rallegranti sino ai lombi
Trasparenze cerulee
Affettate in tinta suina
Solidale di festosa eco
Nello strascico
D’orgoglio paesano
D’un luogo
Agli occhi spesso in salita
Ma a guardarlo
Talvolta
Con cuore e sorpresa
Ti stupisce improvviso
D’una luce in discesa


lunedì 26 novembre 2018


Masters in the shadow



[Piccolo omaggio al “Gusto Puro della Chiacchiera Inutile Fatta in Piazza”, una dimensione del vivere che dovrebbe essere tutelata dall'UNESCO come valore assoluto del patrimonio culturale immateriale dell'umanità]

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I “maestri nell’ombra” sono fini dicitori, eleganti abitatori della parola, soprattutto quella dialettale.

Con loro puoi trascorrere intere mezze mattinate o pomeriggi in piazza, visitando i territori della libera chiacchiera indirizzata al puro “non so dove” argomentativo, e ritrovarti di colpo calato nel paesaggio della più preziosa inutilità colloquiale.

Sanno ospitarti nei locali confortevoli del loro “dire”, gradevole e ricco di spunti di fantasia, mentre tutt’intorno viene sera (o mezzogiorno), che il tempo sembrava quasi essersi messo in sospeso per propria spontanea volontà.

Lo sconfinamento oltre i confini del regno del surreale è spesso la naturale conseguenza di questo vagabondaggio fra le parole.

Un “maestro nell’ombra” può ad un tratto venirsene fuori con questo improvviso lampo di verità non comprovata, ma empiricamente esperita:

“…Da quànda am sŏŋ vià a mangià màl, li vùlti ch’a mangi ben, a stàgh màl….” (“…Da quando mi sono abituato a mangiar male, le volte che mangio bene, sto male…”).

E a te non resta altro che prendere atto della micro-semi-genialità inversa a cui sei appena stato messo di fronte.

Poi l’occhio cade su un cartello curioso, molto importante nella sua funzione di tutela della sicurezza…ma il “rullo schiaccia-senso” della sfrenata e giocosa idiozia “paroliera” è ormai avviato e non si può fermare.

Allora, nella bacata e demenziale immaginazione “chiacchieratoria” in cui si è pienamente calati fino ai verbi e agli aggettivi, quel cartello si tramuta nell’invito a considerare l'eventualità di recarsi in una non meglio specificata località detta “FUGA”.

Al che domando: “…Maestro…sìt sicür che ind’l’ültma parola, i’àbian mia sbaglià ‘na létra?...” (“…Maestro…sei sicuro che nell'ultima parola, non abbiano sbagliato una lettera?...).

“…Partròp a sŏŋ sicür…” è l’inevitabile risposta “…se no in piàsa agh sarés metà ad la gént…” (“…Purtroppo sono sicuro, se no in piazza ci sarebbe metà della gente…”).

E così alla fine, mentre un paio di mezz’orette sono passate, inghiottite dalla piacevolezza del non tempo assoluto, è giunto il momento di darsi l’arrivederci al prossimo a-risentirci:

“…Maestro, at salöt…” (“…Maestro, ti saluto…”)

“…Ciao, at salöt ànca me…” mi fa a sua volta, “…e ricorda una cosa: sono sempre i peggiori che se ne restano…”.

venerdì 23 novembre 2018

giovedì 22 novembre 2018

mercoledì 21 novembre 2018

martedì 20 novembre 2018

At ghè ragiŏŋ…cù èt dét?




Un lomparuolo deploitava con molvico disbutto la clopitevole giumazione del flubbo.

Non essendo spignofoliato a siffatti speppaborghi sumilionici, costrinse il mappo godefratto a sperofognare il ghembo.

Non l’avesse mai sperofognato!

Ne derivarono sielli, mordibuffi, e spignoforiami gipici. Con l’aggravante di sumerfoli sgigoposbiali e mummarevoli sepischiagofici.

Per un intero scevolo fu esarbicato a lestofare bispoli, senza tener conto del magniloflumine esgarbuolo di emerganzità residua.

Chi la sieve la sbombi, dice il golpervio, che non si frubba il perscaruolo se non fuori di boriaccia.

E tutto il resto è pimfogioia…


giovedì 15 novembre 2018

Bimaroneide


Nell’antico regno di Bimaronia, vivevano in lieta prosperità due tribù.

La tribù dei Godifrutti aveva stabilito il proprio villaggio sotto le maestose fronde di un albero secolare.

Allo stesso modo, si era accasata poco lontano la tribù dei Floriligi, all’ombra di un altro vetusto mastodonte vegetale.

Sull'albero dei Godifrutti, spuntavano tutto l’anno delle succulente bacche molto gustose. Avevano la particolarità di cambiare sapore ad ogni stagione, e nel momento della maturazione, emettendo un lieve “pop”, si staccavano dai rami in una delicata pioggia esplosiva, planando dolcemente davanti alle capanne del villaggio.

Sull’albero dei Floriligi sbocciavano invece tutto l'anno meravigliosi fiori dagli stupefacenti colori. Anche questi fiori, dopo un buon periodo a far bella mostra di sé lassù, sfidando la tavolozza dell’arcobaleno, si staccavano dalle fronde con un armonioso “sbuff”. Vorticavano a milioni nell’aria e si depositavano gentili a terra, a disposizione dei Floriligi.

Sì, perché anche i fiori di quell'albero erano buoni da mangiare, e in base alla tonalità del manto dei loro petali, cangiante a ogni mutar di stagione, il gusto al palato dei Floriligi cambiava ogni volta.
Floriligi e Godifrutti vivevano in armonia, orgogliosi dei loro rispettivi alberi. I rapporti di vicinato erano ottimi, le visite nel villaggio altrui erano frequenti e cordiali.

Si era scoperto che le bacche del primo albero raddoppiavano in bontà, se mangiate col condimento dei fiori del secondo. Questo rese ancor più intensa l’amicizia fra i due villaggi, che si scambiavano fiori e bacche durante i giorni della festa degli “sbuff”, o della sagra dei “pop”.

Nessuno aveva mai capito se ciascuno degli alberi avesse un termine, là in alto verso la cima, perché le chiome parevano innalzarsi all’infinito, a bucare le nuvole nei giorni meno assolati, o a grattare i piedi dell’azzurro, quando l’aria era limpida e perfettamente tersa.

Su entrambi gli alberi si posavano di buon grado stormi numerosi di Sleppobeffi, graziosi uccellini viola dal becco giallo, che facevano la spola da un villaggio all’altro, quasi un simbolo svolazzante della fraternità fra le due tribù.

Forse solo gli Sleppobeffi, il cui volo poteva sfidare le più ardite distanze in altezza, sapevano se i due alberi avevano o no una fine sulla punta. Ma non lo rivelarono mai a nessuno. E d'altra parte, né i Godifrutti, né i Floriligi glielo chiesero mai.

Trascorsero molte generazioni di florida serenità per i due villaggi, fino a quando entrambe le tribù si ritrovarono come capi due giovani baldanzosi, dal carattere irruente.

Compe Tizio guidava i Godifrutti, mentre Iperatt Ivo stava alla testa dei Floriligi.

I due nuovi capi villaggio sostenevano la rivoluzionaria teoria secondo la quale non si doveva più attendere la naturale caduta di bacche e fiori. Si poteva e si doveva invece passare al taglio dei rami più bassi, per accelerare i raccolti, aumentando sempre più il benessere.

I primi tentativi furono goffi, perché gli sprovveduti boscaioli improvvisati segavano il ramo stando seduti dalla parte più lontana, frapponendo il taglio fra sé e il tronco.

Questo causò iniziali piogge a “sbuff” e “pop” di gran coglioni matricolati a scroscio sopra i tetti delle capanne, che per fortuna erano fatti di soffici strati di migliaia di foglie, sufficientemente morbidi da attutire le cadute.

Una volta però affinata la tecnica, rami, bacche, foglie e fiori cominciarono a piovere per volontà dell’uomo, senza più sottostare ai ritmi del tempo.
Dapprima ci si limitava ai rami più bassi, ma vedendo che il metodo funzionava in modo così evidente, si passò a segare più su, e poi ancora su, e più in alto dell’alto.

Timide minoranze di Floriligi e Godifrutti protestavano che in quel modo lo spettacolo delle fioriture e del rigoglio di bacche diventava sempre più lontano da vedere, mentre la dolce musica dei pop e sbuff si sentiva ormai a malapena, solamente tendendo l’orecchio nel silenzio assoluto.

D’accordo, c’era stato un arricchimento nelle cose, ma si era perduto molto in immagini e fantasia.

Simili fioche obiezioni da nostalgici, venivano però spianate dal rullo della nuova parola d'ordine: segare sempre più rami, salendo sempre più su. L’altezza spropositata a perdita d’occhio delle due cime sarebbe stata garanzia di raccolti abbondanti a non finire.

E così si proseguì, sulle ali di un’entusiastica foga “segatoria”…fino al fatale giorno in cui i fusti dei due alberi, indeboliti dal continuo rosichio, non ressero più il peso delle piante, che rovinarono sconsolatamente al suolo.

L’albero dei Godifrutti crollò sopra il villaggio dei Floriligi, e viceversa, quello dei Floriligi precipitò fra le capanne dei Godifrutti.

Per fortuna nessuno rimase sotto il peso dei tronchi, ormai così assottigliati nella parte bassa, da cadere con precisione lungo i corsi principali di ciascun villaggio, senza toccare una capanna.

Magra consolazione, sottolineata anche da un nugolo impetuoso di Sleppobeffi infuriati, che per la prima volta nella storia, svolazzarono in un vasto stormo dispettoso sopra le teste delle sbalordite tribù, cagando a più non posso una copiosa nemesi merdosa dal greve puzzo pedagogico.

mercoledì 14 novembre 2018

Dròch e i suoi fratelli


Chi vuol bene alla zia, ama anche l’etimologia!

Mi sono permesso di iniziare in modo scherzoso, per parlare di una disciplina che ho sempre trovato molto affascinante.

L’etimologia, appunto.

Come saprete, secondo la definizione ufficiale, si tratta della scienza impegnata nello studio dell’origine delle parole.

Per rendere meglio conto della bellezza della cosa, però, possiamo vedere l’etimologia come una sorta di attività d’indagine, indirizzata alla ricerca del cuore delle parole, del loro senso più intimo.

Dietro i modi di dire ci sono sempre dei modi di pensare. L’etimologia, in senso più ampio e complesso, consiste dunque nel ripercorrere a ritroso la lunga avventura del pensare umano, in ragione di come quest'ultimo si è dipanato sotto forma di parole.

Ad essere precisi, quando l’etimologia fa questo scatto di qualità, dovrebbe essere chiamata più propriamente “ermeneutica”.

Non è chiara l’origine di questo termine prezioso, traducibile con “arte dell’interpretazione”.

Ma per molti studiosi, nella parola “ermeneutica” sarebbe contenuto un evidente riferimento al dio greco Hermes, il messaggero degli dei, incaricato di fare da “traduttore” (per così dire) di quanto la divinità intendeva dire agli uomini.

Da qui deriva una straordinaria considerazione: nel nucleo più remoto delle parole, starebbe nascosta l’antica contrattazione giocata fra umano e divino nell’intento di scoprire e definire il senso del mondo.

Attenzione, questo non c'entra nulla con la fede o con le varie confessioni religiose.

Ha invece antropologicamente a che fare con il mistero dell’universo e della vita, che l’uomo primitivo, iniziando per le prime volte a nominare le cose, cercava in qualche modo di domare, contenere e forse sperava di dominare.

Non sarà un caso che, in tutt’altra tradizione culturale, quella ebraica, il vangelo di san Giovanni inizi niente meno che in questa maniera:
“…In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio, e il Verbo era Dio…”.

Ma com'è che sono finito a parlare di tutti questi argomenti?

Vi farà ridere, ma in realtà volevo soltanto raccontarvi qualcosa riguardo a un buffo termine dialettale e su un piccolo esperimento ermeneutico che ho provato a praticare su tale parola.

La paroletta in questione me l’ha ricordata di recente un caro amico, ed è “dròch”.

Di solito compare in abbinamento al verbo “dare”, in espressioni tipo “dàgh un dròch” (letteralmente: “dagli un drocco”), e sta a indicare un’esortazione a svolgere un certo lavoro affrettando la conclusione, senza curarsi troppo dei dettagli o delle rifiniture.

La parola è curiosa e di per sé merita attenzione, ma senza conoscerne l’origine si rimane un po' come sul più bello di una storia, di cui non ci venga raccontato il seguito.

In mancanza di etimologie sicure (che col dialetto sono ancor più difficili da ricostruire), riguardo a “dròch” mi sono creato una mia piccola ipotesi.

Per assonanza, mi sono ricordato l'esistenza di un altro termine dialettale piuttosto strano: “drucà”.
Lo sentivo dire più che altro da bambino, spietatamente riferito a persone che, per un motivo o per l’altro, presentavano limitazioni fisiche tali da rendere difficili i movimenti.

“L’è drucà” voleva dunque dire “è malandato fisicamente”.

Qui l’aggancio alla possibile etimologia mi è sembrato più immediato. In una terra in cui è alquanto assodata la familiarità con la parola “rocca” e con tutte le guerresche operazioni medievali di assalto e tentativi di distruzione della medesima, mi è parso naturale vedere nascosto nel dialettale “drucà”, l’italiano “diroccato”.

Mi sono chiesto se fra “dròch” e “diroccato” poteva esserci un nesso.

Forse “dàgh un dròch” (“dagli un drocco”), tradotto alla lettera potrebbe funzionare meglio con “dagli un dirocco”?

Si riferirebbe a un modo di terminare le cose così sbrigativo e grossolano, simile a quanto si richiede nelle operazioni necessarie a diroccare una rocca?

Non lo so. Forse il tutto potrà suonare un po' forzato, ma a volte con l'etimologia e con l’ermeneutica, la cosa importante, più del risultato ottenuto, è il divertimento gustato lungo il percorso fatto.

Mi sento allora di consigliarvele. Se vi capita, frequentate l’ermeneutica, praticate sani esercizi di etimologia.

Sono attività buone per la mente e costano anche poco. Molto meno che drogarsi, ad esempio...

martedì 13 novembre 2018

Anti-comfortably numb


L’idea di anticonformismo è materia da trattare con grande cautela e, allo stesso tempo, un tema piuttosto interessante su cui riflettere.

Magari ce ne potremmo altamente fregare di un’idea, qualcuno obietterà, e continuare a vivere come sempre. Cosa sarà mai? Per un’idea…

D'accordo. Se non fosse che le idee influenzano i comportamenti e l'atteggiamento della gente. E con la gente, dobbiamo averci a che fare tutti. Ogni giorno. Essendo tra l'altro ciascuno di noi a sua volta “gente” per qualcun altro.

Come sempre, quando si tratta di idee, tutto è retto dalla imponente impalcatura della filosofia.

Nell’antica Grecia, culla della nostra tradizione filosofica, dopo il fulgido periodo dei grandi sistemi di Platone e Aristotele, si visse una fase di crisi del pensiero.

Il “dubbio” venne assunto come guida principale del ragionare, fino a diventare “sistematico” con gli Scettici, esponenti di una scuola filosofica che reputava lecito dubitare sempre e in ogni caso, di tutto.

“…Non esiste nessuna verità…” proclamavano incautamente gli Scettici, senza infatti rendersi conto che se nulla è vero, doveva essere “non vero” anche ciò che loro dicevano.

Gli Scettici mettevano il piede nella tagliola da loro stessi posata nel sottobosco del pensiero.

Simili attorcigliamenti logici capitano anche con la questione dell’anticonformismo e della trasgressione.

Viene infatti da chiedersi: oggi è più trasgressivo quel tizio che sniffa cocaina e tira al mattino sovraccarico come un Tir pieno di lingotti di ghisa, o quell’altro che si addormenta il sabato sera alle dieci in poltrona, con un libro in mano e il gatto sulle ginocchia?

Osservando il tema da altre prospettive: sono strepitosamente ridicoli certi spot, ad esempio di automobili, che fanno leva sul senso di esclusività, distinzione, e originalità, di cui godrai una volta venuto in possesso di questo o quell'altro modello di quattroruote.

Esclusività garantita a te, e a milioni di altri che abboccheranno, e che poi tutti insieme, si ritroveranno “come le star”, esclusivamente a bordo del loro esclusivo modello, a tirarsi degli esclusivi “cancheri” a vicenda, imbottigliati in un esclusivo ingorgo metropolitano.

Da questi rapidi cenni faceti, deduciamo come, a mandare in crisi i paradigmi dell’anticonformismo e della trasgressione, sia stato proprio l’avvento moderno di modi di vivere continuamente calati nella dimensione di massa.

Oggi Jim Morrison e Sid Vicious si sballerebbero con la tempestina in brodo di dado, vedendo in giro quanti drogati ci sono.

Tutto questo, non per mettere in piedi la solita ritrita invettiva in lode dei bei tempi andati.
La società di massa ha il suo fascino e tanti aspetti positivi.

Ma è importante, a mio avviso, conservare la capacità di “tirarsi ogni tanto di lato”, rispetto alle situazioni in cui siamo calati, e osservarle come se le stesse vivendo un altro.

Di colpo, ne coglieremo tutto il ridicolo, le stonature e gli stridori del paradosso. E un tocco di sana ironia ci aiuterà poi a correggere la rotta, nella consapevolezza permanente della nostra imperfezione “militante”.

E se ve lo dico da uno dei pulpiti “più di massa” che oggi si possano immaginare, ossia una pagina Facebook, forse, ma  forse, vi potete davvero fidare.



lunedì 12 novembre 2018

Rutti postmoderni


Con un'immagine suggestiva, potremmo paragonare il linguaggio che parliamo, a un paesaggio in cui ci ritroviamo a vivere.

Non ci vorrà allora un esperto di urbanistica per cogliere un’interessante similitudine fra le due dimensioni.

Gli ambienti di vita, le case, i quartieri, i paesi, le città, solitamente risultano più gradevoli da abitare e ricchi di fascino, quando hanno avuto modo di caricarsi di significati nel tempo, in maniera graduale, per lenta stratificazione.

Un borgo medievale ci concilia con la nostra sensibilità e con la propensione al bello, molto più di quanto non sappia fare una via piena di capannoni in un quartiere industriale.

Qualcosa di simile succede anche con le parole. Quelle che si sono formate lentamente, modellate dall'esperienza parlata quotidiana, di solito contengono una forza evocativa più vasta, un’energia maggiore, un’ampia capacità di trasportare con sé significati e sfumature di senso.

Sul fronte opposto, si formano talvolta certe “parole-capannone”, nate dall’oggi al domani, perlopiù nell’ambito del linguaggio tecnologico, che quando va bene suonano un po' fredde e legnose.

E sottolineo “quando va bene”. Perché nei casi più infelici, sono delle vere e proprie schifezze. “Abusi linguistici” che nemmeno il più generoso condono riuscirebbe a sanare.

Mi è capitato di sentirne una di recente, che ho trovato di una bruttezza veramente spettacolare. L'hanno detta in tv, e tra l’altro ho rischiato pure grosso, dato che nel mentre stavo mangiando.

Spero che siate a stomaco leggero, perché leggendo questa parola si rischia il rigetto post-prandiale senza appello.

La parola è “bio-digestore”.

Se siete riusciti a reprimere i conati (immagino molto a fatica), proseguo col mio discorso.

Con questa sgraziata, e disgraziata, parola, viene indicato un impianto per la trasformazione di rifiuti organici in biogas.

Ora, capisco la necessità di sintesi e di una terminologia pratica per capirsi velocemente nelle questioni tecniche. Ma c'era davvero bisogno di escogitare questa sguaiata "perla”?

Personalmente, il “bio-digestore” mi ha evocato una serie di immagini sparpagliate fra il comico, il grottesco e l'inquietante.

La prima cosa pensata è stata una squillante bestemmia, magari sparata in un gruppo di vecchietti seduti all’osteria a farsi una briscola: “...Ma bio digestore!!! Pudévat mia calà al fümóŋ?...” (“…non potevi calare l’asse di bastoni?!?!?!...”).

Il “Bio-digestore” può farci precipitare anche in atmosfere apocalittiche stile “Blade runner” o “Matrix”, col mondo trasformato in un enorme stomaco globale che si sta auto-digerendo, sino alla tremenda soluzione finale della gran scoreggia galattica totale.

Sì, perché poi, a ben guardare, chi ha concepito questo gioiello di parola ha anche un po' ciurlato nel manico.

Ci depista attirando l’attenzione sulla fase digestiva di tutto il processo, ma se l’obiettivo conclusivo è la produzione di gas, era un altro il passaggio da mettere in rilievo.

Invece di “bio-digestore”, se davvero volevano essere tecnicamente coerenti, avrebbero dunque dovuto chiamarlo, ad esempio, “flatulone”, “air-fart-one”, “gran petoforo”, o “scoreggificio”.

Insomma, per tornare un po' seri (ma non troppo), lo chiamino pure “bio-digestore”, oppure Pink Floydianamente “The Great fart in the sky”, ma il punto focale rimane il nostro sacrosanto diritto di difenderci dalla bruttezza.

Usare parole brutte è un po' come subire la bruttezza dei luoghi. Anzi, si diventa quasi complici dell’abbruttimento.

Così come pretendiamo giustamente la tutela ambientale, dovremmo esigere anche una tutela linguistica.

Certo, creare bellezza è prerogativa forse riservata soltanto agli artisti. Ma sforzarsi di far sì che almeno non aumenti la bruttezza, credo sia più alla portata di tutti.

Magari partendo da piccole cose. Tipo rifiutarsi di digerire astruserie indigeste come la parola “bio-digestore”.


venerdì 9 novembre 2018

Come se


Ogni mattina rinasciamo al mondo partoriti ancora una volta dal ventre caldo e buio della notte, gli occhi appiccicati nello strascico amniotico di qualche sogno liquido, ci destreggiamo inconsapevoli fra incombenze primordiali, galleggiando nel neonato oblio pre-civilizzato, sgravandoci della scoria mal aulente di una coscienza tornata infante in corpo adulto, mentre cresce la luce nel cielo quasi ripercorrendo nuovi anni dell’asilo, e una fresca energia di ore ancora bambine accompagna gesti e pensieri mattutini, fino a quando il mezzogiorno ci coglie nel fulgore pieno degli appetiti giovanili, subito seguiti dai dubbiosi ripensamenti sul primo adolescenziale meriggio, così ci addentriamo in altri minuti-giorno, inoltrati sempre più nella matura conoscenza di sé, verso la pienezza preserale, giunta ad avvolgerci della soddisfazione di sguardi lanciati alle spalle dall’alto di un edificio del nostro tempo ormai ben costruito, con finiture cronologiche di pregio intimo, gronde generose di amicizie coltivate, balconi aggettanti sul buio dell’imbrunire incipiente a velare d’ombre buone un panorama di cose disseminate lungo il paesaggio trascorso, quando il velo di pece della notte ci riaccoglie rassicurante in quello scenario calmo dove di buon grado andiamo nuovamente a riporre fervidi sogni di rinascita nell'indomani ciclico, seduti sulla cui sella già riassaporiamo il gusto di pedalare verso rinnovati stupori ripetitivi nel loro cangiante meravigliarci del dono portentoso di una noia vivifica perché sempre uguale nel suo incessante diversificarsi, come semenza dormiente a macerarsi placida sotto la coltre di un sonno agricoltore, da cui germineremo ancora, nuovo brandello di futuro lungo altre ventiquattro ore.

martedì 6 novembre 2018

Le lezioni del professor Lenzuolo


Alzi la mano chi non conosce Jackson Pollock.

Va beh, tirate pure giù. Cerco di raccontarvelo un po' io, per quello che ne so.

Non perché mi ritenga chissà quale gran sapientone. È solo che, di recente, ho avuto l'occasione di “ascoltare” una lezione sull’argomento, tenuta niente meno che dal lenzuolo del mio letto. Mi piacerebbe riferirvi cosa mi ha spiegato.

Lo so, vi stanno già fremendo le dita in maniera spasmodica, dalla voglia matta di chiamare la neuro. Ma se avete solo qualche attimo di pazienza, magari dopo vi ricrederete.

Jackson Pollock (1912-1956), americano, è stato uno dei più influenti e significativi pittori della storia moderna dell'arte.

Anche se le quotazioni di mercato sono tutt'altra faccenda rispetto al valore artistico, basti pensare che una sua opera del 1948, intitolata “No. 5” (“Number Five”, 2.4 m × 1.2 m), è stata venduta all’asta nel 2006 per 140 milioni di dollari. Nei cinque anni successivi, fino al 2011, la cifra più alta di sempre pagata per un quadro.

Il “problema” che molti hanno con Pollock è come dipingeva: sia per il metodo, sia per gli esiti.

Chi ha poca familiarità con l’evoluzione del linguaggio dell’arte negli ultimi decenni, potrebbe vedere nei suoi lavori nient'altro che un caotico miscuglio di colori lanciati a casaccio sul supporto pittorico.

I più rozzi ancora, parlerebbero di indefinibili “sbordacciate” (sbrodolate), poco diverse dallo stato in cui si ritrova il pezzo di cartone, messo sotto dall’imbianchino per non sporcare il pavimento, quando ha terminato di dare un paio di mani al nostro soggiorno o alla cucina.

In effetti Pollock lavorava in modo non tanto diverso. Ci sono anche interessanti filmati che lo ritraggono all’opera.

Posava a terra un grosso pannello rigido, fatto di una dura fibra di cartone detta “fiberboard”. Con una latta di vernice in una mano e il pennello nell'altra, iniziava a girare intorno al piano, facendovi cadere sopra ampie sgocciolate di colore.

Questa curiosa tecnica venne definita non a caso “dripping painting” (“pittura per sgocciolamento”), a sua volta specificazione particolare della “action painting” (“pittura d’azione”, o meglio ancora “astrazione gestuale”).

“Sgocciolamento” e “azione” sono le due parole fondamentali.

Come forse per nessun altro artista, è stato molto importante che la realizzazione di una qualche opera di Pollock sia stata fermata in tempo reale dalla cinepresa.

Simile a uno sciamano in preda alla trance creativa, lo si vede “danzare” sopra l’opera, lasciando cadere le sue gentili frustate di colore.

L’obiettivo di tale fare artistico, si condensava tutto nel rendere testimonianza a dei gesti,  fermandoli con tracce concrete. Erano “gesti dipinti”, quelli ottenuti alla fine.

Dove sta il senso di tutto ciò?

Ovviamente, avete a disposizione tutti i libri di storia dell’arte immaginabili, per approfondirlo. Ma a me stava a cuore riferire quanto ho imparato dal mio lenzuolo.

Al mattino, quando tiro indietro le coperte dal letto per arieggiare un po', mi affascina sempre il modo in cui il lenzuolo disegna schemi casuali sul piano del materasso.

Sono forme che non hanno alcun significato, eppure a modo loro, ne suggeriscono molti.
Composizioni spontanee che evocano una specie di “caos controllato”, un disordine armonico.

A volte non posso fare a meno di tentare qualche scatto fotografico, perché quel “disegno non disegnato” mi sembra suggestivo più che mai.

Ed è stato a questo punto che ho compreso meglio Pollock. Il fatto di usare il cellulare per fotografare, ha aiutato molto.

Alzando o abbassando l’apparecchio, per escludere o comprendere nell’inquadratura quella certa piega della stoffa, quel punto d’ombra, oppure quella striscia più luminosa, stavo facendo un'operazione molto simile al “dare pennellate” del pittore americano.

In un modo o nell'altro, stavo cercando di trovare un senso al caos. Ecco il cuore del mistero di tutta l'intenzionalità espressiva di Pollock.

Chino sulla sua opera, spostandosi lungo traiettorie dettate dalla sensibilità del momento e dosando le pennellate secondo uno schema molto più istintuale che ragionato, Pollock faceva “filosofia dipinta”.

Cercava la risposta a un interrogativo esistenziale antico come gli uomini: perché in questo gran guazzabuglio incomprensibile che è l’universo, solo a noi sembra di cogliere un senso, che purtuttavia si mantiene sempre sfuggente e beffardamente inafferrabile?

Ora, detto questo, sono sicuro che rimarrà sempre chi salterà su dicendo: ma un quadro di Pollock lo saprei fare anche io!

Bene. Vai dal ferramenta, procurati latte di colori assortiti, pennelli e pannello. Torna a casa, fai il tuo Pollock. Poi corri a Londra e presentati alla casa d’aste Christie’s. Proponi la tua opera.

Se riesci a spuntare un solo penny in più, oltre al calcio nel culo che ti arriverà, sarò il primo io a pagarti da bere.

lunedì 5 novembre 2018

Facoltà di intendere e di volere...


I did on


Era da tanto tempo che non mi succedeva.
Ieri sera, sono arrivato a casa dopo una giornata intera passata in giro con indosso (ovviamente) le scarpe.

Appena le ho tolte, mi attendeva una sorpresa poco lusinghiera, ma abbastanza stravagante da risultare quasi simpatica: un alluce (“didón dal pé”) stava occhieggiando ribaldo oltre la cortina sfondata del calzino.

Questo buffo contrattempo mi ha innescato nella mente un effetto domino di ricordi antichi e curiose nuove considerazioni. Una cosa quasi degna (ma molto quasi) di Marcel Proust e della sua madeleine, il dolcetto riassaporato ormai in età matura dal grande scrittore francese, “motore gustativo” della memoria, per un'infinità di temi rievocati poi nel capolavoro “Alla ricerca del tempo perduto”.

Per tutto il periodo della scuola (direi dall’asilo fino al liceo, con qualche anarchico riflesso di fondo, prolungatosi fino a oggi), il gesto di tornare a mettersi le scarpe, e dunque le calze, a fine estate, ha sempre rappresentato una specie di linea di demarcazione emotiva.

Alle spalle, rimanevano la spensieratezza, la libertà e la leggerezza del clima vacanziero; di fronte, si profilavano il senso di responsabilità, i doveri e gli impegni seriosi, del nuovo periodo scolastico.
Proprio questo fatto, veniva intensamente invidiato da Tom Sawyer al folcloristico amico Huckleberry Finn: “…era sempre il primo ragazzo ad andare a piedi nudi in primavera e l'ultimo a rimettersi le scarpe in autunno…” [“Tom Sawyer” (1876) - Mark Twain].

Dall’inizio del periodo cittadino liceale, però, la faccenda del rimettersi le scarpe e le calze a estate finita, si legò indissolubilmente al rischio ricorrente di fare una “pozzettiana” figura “da paisàn” (ossia, da gran campagnolo matricolato).

Per prepararsi alle due ore di ginnastica settimanali, bisognava naturalmente cambiarsi calze e scarpe negli spogliatoi della palestra, sfoderando le “fette”.

Qui, forse solo chi è provvisto di un lungo piede affusolato con pronunciato alluce puntuto, potrà capire pienamente le proporzioni di questo tascabile “dramma” calzaturiero adolescenziale.

Certo, prima di partire, mi curavo sempre di scegliere il paio di calze più integro possibile.

Ma il calcagno di cotone o lana non era mai abbastanza indietro, non c’era mai stoffa sufficiente a contenere i “tallonamenti” selvaggi che si ripercuotevano in pericolose trazioni estreme, sul fronte opposto.

Così, non era mai esclusa la beffarda eventualità che, nel lungo tragitto in corriera, poi dalla pensilina dei bus a scuola, quindi da lì alla palestra, il ditone non avesse traforato la fragile membrana del tessuto, sempre in eterna tensione sotto l’irruenza dell’unghia insidiosa, e smaniosa di “addentare” in presa diretta la punta della scarpa, con la foga del rostro di una triremi romana.

Solo una volta, ricordo di aver tramutato questo continuo possibile “dramma” in un trionfo acclarato, compiendo un gesto di rivendicazione pura e piena di tutta la mia essenza campagnola al completo.

A casa, nel fine settimana prima, avevamo “mostato” (pigiato) l’uva coi piedi. Completate le varie incombenze “vinose”, andavo sempre fiero degli sfavillanti piedi viola con cui ti ritrovavi alla fine. Erano come onorevoli gradi conquistati sul campo di battaglia della “paesanità”.

La volta dopo, nello spogliatoio della palestra, non me ne fregava proprio più un bel nulla di eventuali calze bucate, ecc.

Anzi, ricordo che sfoderai con grande orgoglio tutto il fulgore agricolo delle mie capienti “flute” purpuree, tra lo stupore misto a ilarità degli altri ragazzi cittadini.

E…non ne sono sicuro ma, mentre mi sfilavo lentamente le calze, per assaporare meglio il gusto del momento, credo di aver anche sussurrato fra me e me: “…ma va a dà via’l cül!...”.

Un antico adagio popolare delle nostre terre, vagamente traducibile con la perifrasi: “…Ma vai ad offrire a nolo le tue virtù posteriori, al miglior offerente sulla piazza!...”.